20 Dicembre 2024
Business Judgement Rule e responsabilità degli amministratori: i confini delineati dalla Cassazione
Con l’ordinanza n. 25260 del 20 settembre 2024, la Corte di Cassazione è intervenuta in tema di business judgement rule a definizione di in una controversia che aveva ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni causati dalla mala gestio di un amministratore di una società a responsabilità limitata. La Corte ha sottolineato che le decisioni dell’amministratore non sono sindacabili solo se non appaiono manifestamente irragionevoli o imprudenti, sulla base di uno scrutinio da effettuarsi ex ante, in concreto, tenendo conto dello standard di condotta della diligenza professionale a cui gli amministratori devono uniformarsi. Di particolare interesse è proprio l’attenzione posta sull’ambito delle verifiche e valutazioni a cui il Giudice è chiamato: la business judgment rule non deve essere intesa come generica e generalizzata esimente da responsabilità.
La pronuncia in esame ha, inoltre, offerto l’opportunità di ribadire i confini della responsabilità contrattuale degli amministratori e chiarire la ripartizione dell’onere probatorio nei casi di mala gestio.
Il Caso
La vicenda trae origine dall’opposizione proposta da una società immobiliare avverso un decreto ingiuntivo ottenuto da un ingegnere per il pagamento dei suoi compensi professionali per la progettazione e direzione lavori su due immobili della società.
Quest’ultima contestava la legittimità dell’incarico, sostenendo che l’amministratore che lo aveva conferito fosse privo di poteri di rappresentanza al momento della stipula e che il debito non fosse stato iscritto in bilancio. In particolare, la società deduceva che la mancata iscrizione del debito fosse prova della non esistenza dell’obbligazione.
La società chiedeva, inoltre, il risarcimento danni per mala gestio, imputando all’amministratore l’inerzia nel mettere a reddito gli immobili sociali, utilizzati invece per fini personali.
Sia il Tribunale di primo grado sia la Corte d’Appello avevano rigettato le istanze della società, confermando la validità dell’incarico e ritenendo non provata la mala gestio.
La pronuncia della Cassazione
Nell’ordinanza in commento, la Corte di Cassazione precisa che una società non può considerarsi terza rispetto a un contratto concluso in suo nome e deve provare che la manifestazione di volontà dell’amministratore sia intervenuta in seguito alla perdita del potere rappresentativo.
Con riferimento alla questione del riparto dell’onere probatorio, la società sosteneva che il debito verso il professionista incaricato non fosse iscritto in bilancio. A tale riguardo, la Suprema Corte chiarisce che l’assenza dell’iscrizione del debito nei libri contabili non implica necessariamente l’inesistenza dell’obbligazione, poiché le scritture contabili non possono dimostrare né la mancanza di rapporti tra le parti né l’assenza di obblighi derivanti da altre prestazioni.
In tema di business judgement rule, la Suprema Corte sottolinea che l’amministratore non può essere considerato responsabile per decisioni gestionali che si rivelino economicamente sfavorevoli o inopportune. Questo tipo di valutazione rientra infatti nella discrezionalità imprenditoriale, che, al massimo, può costituire una giusta causa per revocare l’amministratore, ma non una base per imputargli una responsabilità contrattuale nei confronti della società.
La Corte precisa che il giudizio sulla diligenza dell’amministratore non deve riguardare le sue scelte di gestione né le modalità con cui queste sono state attuate, anche quando comportino rischi economici significativi. Ciò che rileva, invece, è la diligenza dimostrata dall’amministratore nel valutare preventivamente i rischi connessi alle sue decisioni. In particolare, rileva se l’amministratore abbia omesso le verifiche, le informazioni e le cautele necessarie per tutelare adeguatamente gli interessi della società, come previsto dai suoi obblighi legali e statutari.
La Suprema Corte rimarca, inoltre, che l’azione di responsabilità nei confronti di amministratori e sindaci è di natura contrattuale. Questo significa che spetta alla società dimostrare che ci sono state violazioni da parte degli amministratori o sindaci e che queste hanno causato un danno, mentre grava sull’amministratore l’onere di provare di aver adempiuto diligentemente ai propri obblighi. Va sottolineato che l’onere della prova a carico della società non si limita a dimostrare l’atto compiuto dall’amministratore, ma deve includere elementi concreti che dimostrino come tale atto rappresenti una violazione dei suddetti doveri. Di conseguenza, chi intende far valere in giudizio la responsabilità dell’amministratore deve fornire una serie di indizi dai quali si possa dedurre la violazione di tali obblighi.
Se le condotte contestate all’amministratore non violano esplicitamente la legge o lo statuto, è necessario verificare se esiste un obbligo di astensione derivante dai suoi doveri di lealtà e diligenza. Il dovere di lealtà impone all’amministratore di evitare situazioni di conflitto di interessi con la società, mentre il dovere di diligenza richiede l’adozione di tutte le misure necessarie per tutelare gli interessi sociali che gli sono stati affidati.
Infine, in materia di responsabilità degli amministratori per i danni causati alla società, il principio di insindacabilità delle scelte gestionali (cosiddetta business judgement rule) non trova applicazione quando le decisioni economiche adottate risultano manifestamente irragionevoli, imprudenti o palesemente arbitrarie (Cassazione civile sez. I, 25/03/2024, n. 8069).
La Corte di merito non si è conformata a tali principi di diritto, limitandosi ad affermare l’insindacabilità delle scelte gestionali dell’amministratore, senza però verificare se la sua inerzia nel concedere in locazione gli immobili della società, utilizzandoli invece gratuitamente, costituisse una violazione del dovere di diligenza.
La società attrice aveva sostenuto che l’amministratore fosse rimasto inerte e non avesse messo a reddito gli immobili, causando un danno sotto forma di mancato incasso dei canoni di locazione, considerando che la società aveva come scopo la redditività degli immobili. In relazione a questa condotta, era compito dell’amministratore giustificare le ragioni di tale scelta gestionale, poiché non era legittimo adottare una decisione arbitraria, che appariva irrazionale e non plausibile rispetto all’oggetto sociale della società.
Per la Cassazione, la Corte di merito ha commesso un errore non solo nel ripartire l’onere probatorio, ma anche nel considerare insindacabili le scelte gestionali, anche quando esse risultano irragionevoli, imprudenti o arbitrarie. Inoltre, non è stato effettuato alcun approfondimento sull’utilizzo personale degli immobili da parte dell’amministratore, per determinare se tale decisione fosse stata una scelta prudente in relazione all’oggetto sociale della società.
Principio di diritto
La Corte di Cassazione accoglie il ricorso, con rinvio alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione che applicherà il seguente principio di diritto: “Qualora i comportamenti degli amministratori che si assumono illeciti non siano vietati dalla legge o dallo statuto, la condotta dell’amministratore è illegittima se omette di adottare tutte le misure necessarie alla cura degli interessi sociali a lui affidati; in tal caso l’attore ha l’onere di provare tutti gli elementi di fatto dai quali è possibile dedurre la violazione dell’obbligo di lealtà e di diligenza”.
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5 Dicembre 2024
La Cassazione afferma che la conciliazione in sede sindacale non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale
Con l’Ordinanza n. 10065 del 15 aprile 2024, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato dal datore di lavoro, confermando la decisione della Corte di Appello, che aveva dichiarato l’invalidità dell’accordo conciliativo, con il quale il lavoratore aveva accettato una temporanea riduzione della propria retribuzione mensile allo scopo di preservare il posto di lavoro. L’invalidità di tale accordo, secondo i giudici di legittimità, deriva dalla avvenuta sottoscrizione presso i locali dell’azienda, luogo che non integra una delle sedi protette indicate dall’ultimo comma dell’art 2113 c.c., non essendo a tal fine sufficiente la presenza del rappresentante sindacale del lavoratore.
La pronuncia in commento si pone in discontinuità rispetto alle ordinanze della Cassazione n. 25796/2023 e n.1975/2024 che aprivano alla possibilità di sottoscrivere accordi conciliativi tra datore di lavoro e dipendente in luoghi diversi dalle sedi c.d. protette, a condizione che fosse avvenuta una concreta ed effettiva assistenza sindacale in favore del lavoratore.
Il caso e le decisioni di merito
La decisione della Suprema Corte in esame riguarda il caso di un accordo conciliativo intercorso tra datore di lavoro e dipendente, in virtù del quale l’impresa rinunciava a dare seguito ai preannunciati licenziamenti collettivi, a fronte dell’accettazione da parte di tutti i lavoratori interessati ad una temporanea riduzione del proprio stipendio mensile.
L’accordo conciliativo, stipulato nei locali dell’azienda alla presenza del rappresentante sindacale, veniva successivamente impugnato da un lavoratore che ne contestava la validità per non essere stato stipulato in una sede protetta.
I giudici di primo e secondo grado dichiaravano la nullità del verbale di conciliazione impugnato, in quanto la stipula dell’accordo era avvenuta presso la sede aziendale, luogo che non rientra tra le sedi protette indicate dagli artt. 2113 c.c. e 411 c.p.c., rilevando che la presenza del rappresentante sindacale non valesse a sanare il difetto di neutralità del luogo. Circostanza confermata anche dal fatto che le stesse parti avevano previsto la successiva ratifica dell’accordo presso le sedi abilitate.
L’ordinanza della Cassazione
La società ha quindi presentato ricorso in Cassazione avverso la decisione della Corte di Appello, sostenendo che i giudici di merito avevano erroneamente interpretato il concetto di “sede protetta”, come luogo fisico-topografico e non invece come luogo virtuale di protezione del lavoratore che si realizza attraverso l’effettiva assistenza in sede di conciliazione da parte del rappresentante sindacale cui il medesimo lavoratore abbia conferito mandato.
La Suprema Corte, nel confermare la decisione di merito, evidenzia che, in riferimento agli accordi di conciliazione riguardanti diritti indisponibili, la tutela del lavoratore non dipende esclusivamente dalla presenza del rappresentante sindacale, ma anche dell’ambiente in cui avviene la conciliazione. Per tale motivo, con le disposizioni richiamate dall’art. 2113 c.c., il legislatore ha individuato un elenco tassativo delle sedi in cui è possibile formalizzare l’accordo che presentano le caratteristiche di neutralità ed estraneità rispetto al dominio e all’influenza del datore di lavoro, condizione necessaria per garantire la libera determinazione del lavoratore nella rinuncia dei propri diritti.
Il principio di diritto
La Corte di Cassazione rigetta quindi il ricorso, ritenendo non validamente conclusa l’impugnata conciliazione e ribadendo il seguente principio di diritto: “la conciliazione in sede sindacale, ai sensi dell’art. 411, comma 3, c.p.c., non può essere validamente conclusa presso la sede aziendale, non potendo quest’ultima essere annoverata tra le sedi protette, avente il carattere di neutralità indispensabile a garantire, unitamente alla assistenza prestata dal rappresentante sindacale, la libera determinazione della volontà del lavoratore”.
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27 Novembre 2024
Responsabilità degli enti: la società non è responsabile se il manager delegato non osserva le misure di sicurezza previste
La sentenza n. 31665/2024 della Corte di Cassazione penale ha affermato il principio secondo cui il comportamento imprevedibile di un manager che agisca in contrasto con vincolanti direttive aziendali senza generare un vantaggio patrimoniale significativo per l’ente esclude la responsabilità di quest’ultimo ai sensi del D.lgs. 231/2001.
Il caso: sequestro in Libia di quattro tecnici, di cui due deceduti
Il caso di specie risale al 2015 e riguarda il sequestro in Libia di quattro tecnici italiani, dipendenti di una multinazionale operante nel settore Oil & Gas. In base alle direttive aziendali, contemplate sia nel Documento di valutazione dei rischi che nel Modello organizzativo, il trasferimento dalla Tunisia alla Libia avrebbe dovuto avvenire esclusivamente via mare, per evitare i noti rischi derivanti dall’instabile situazione geopolitica del paese nordafricano.
Malgrado ciò, l’operation manager con delega operativa alla sicurezza e dotato di poteri decisionali e di spesa, decideva di procedere al trasporto dei tecnici via terra, poiché la nave a disposizione dell’azienda sarebbe arrivata in Tunisia solo dopo alcuni giorni. Questa decisione si è poi rivelata fatale: durante il tragitto via terra i quattro tecnici vennero rapiti, tenuti in ostaggio per diversi mesi e due di loro poi uccisi.
Nel procedimento penale conseguente alla morte dei due tecnici, sono stati rinviati a giudizio i componenti del Consiglio di Amministrazione, l’operation manager e l’ente stesso, ai sensi dell’art. 25 septies del D.lgs. 231/01 (Omicidio colposo con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro).
Condannati in primo grado, i componenti del Consiglio di Amministrazione sono poi stati assolti in appello, non ravvisandosi una loro responsabilità diretta nell’evento. Su ricorso del Procuratore generale, la Cassazione ha confermato l’assoluzione dei componenti del Consiglio di Amministrazione ed escluso la responsabilità amministrativa dell’ente.
L’idoneità del modello organizzativo e l’esclusione della responsabilità dei vertici aziendali
Nella sentenza n. 31665/2024, la Cassazione chiarisce in primo luogo che l’accertamento della responsabilità dell’ente deve seguire “un percorso di natura sostanziale, al fine di evitare che la responsabilità dell’ente sia formalisticamente e automaticamente dedotta in base a schemi logico-presuntivi che richiamano il paradigma della responsabilità oggettiva”.
Su tale presupposto, la Suprema Corte ha quindi da un lato accertato che l’ente aveva “in concreto adottato un Modello organizzativo perfettamente idoneo a tutelare l’incolumità dei dipendenti e che le prescrizioni imposte erano state costantemente rispettate”. In particolare, dando atto che le misure previste dal Modello organizzativo aziendale (come il divieto di trasferimenti via terra in aree a rischio e l’obbligo di utilizzare trasporti marittimi, sempre rispettate dai responsabili locali) erano idonee a prevenire il tipo di rischio verificatosi.
D’altro canto, ha altresì accertato che l’ente aveva fornito all’operation manager una delega piena e le risorse necessariein materia di sicurezza e che “la scelta di disporre il trasferimento via terra fu frutto di una sua personale iniziativa del tutto imprevedibile” e tale da “recidere il nesso eziologico tra l’asserita condotta omissiva del Consiglio di Amministrazione e l’evento mortale”.
Secondo la Cassazione, la decisione del manager di ignorare le direttive aziendali è stata quindi un’azione isolata e non prevedibile, tale quindi da escludere la responsabilità dei vertici aziendali, che avevano comunque adottato adeguate misure di prevenzione del rischio.
L’assenza di vantaggio patrimoniale
Altro aspetto rilevante della decisione riguarda l’esclusione della sussistenza di un interesse o vantaggio per l’ente derivante dalla decisione dell’operation manager: sebbene lo spostamento via terra fosse più rapido e in ipotesi avrebbe permesso ai tecnici di raggiungere in tempi più brevi il sito aziendale, la Cassazione ha ritenuto che il risparmio economico derivante da tale scelta fosse del tutto irrilevante e tale da escludere che potesse costituire motivo plausibile per giustificare tale imprudente scelta. Nella sentenza si afferma quindi anche il principio secondo cui “l’esiguità del risparmio può rilevare per escludere il profilo dell’interesse e/o del vantaggio e quindi la responsabilità dell’ente ove la violazione si collochi in un contesto di generale osservanza da parte dell’impresa delle disposizioni in materia di sicurezza”.
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5 Novembre 2024
Il procedimento di pignoramento di quote di s.r.l. intestate a società fiduciarie
Con la Sentenza n. 24859 del 16 settembre 2024, la Corte di Cassazione, in continuità con precedenti pronunce, ha confermato che la procedura da seguire per l’esecuzione del pignoramento di quote di società a responsabilità limitata è quella del pignoramento diretto previsto dall’art. 2471 c.c. e non il pignoramento presso terzi ai sensi dell’art.543 c.p.c. precisando che ciò vale anche nei casi in cui le quote societarie sono fiduciariamente intestate a un terzo. L’intestazione fiduciaria, infatti, NON comporta un trasferimento della proprietà dal fiduciante alla fiduciaria.
Il Caso
Nel caso in oggetto, la creditrice aveva eseguito un pignoramento presso terzi, ai sensi dall’art. 543 c.p.c., su partecipazioni societarie dell’ex coniuge intestate a società fiduciarie.
Il Giudice di merito aveva dichiarato la nullità del pignoramento e disposto la chiusura anticipata della procedura esecutiva, sostenendo che, nel caso di quote di una società a responsabilità limitata intestate a società fiduciarie, il pignoramento sarebbe dovuto avvenire seguendo le disposizioni previste dall’art. 2471 c.c., secondo il quale: “La partecipazione può formare oggetto di espropriazione. Il pignoramento si esegue mediante notificazione al debitore e alla società e successiva iscrizione nel registro delle imprese” e non con la procedura prevista dall’art. 543 c.p.c. per il pignoramento presso terzi.
La sentenza della Corte di Cassazione
Sulla questione è intervenuta la Suprema Corte ribadendo che, essendo le quote di una s.r.l. dei beni immateriali equiparabili a un bene mobile non iscritto in pubblico registro e non un credito che il debitore ha nei confronti di un terzo, non può applicarsi la procedura prevista per il pignoramento presso terzi. Il pignoramento delle partecipazioni di una s.r.l. deve quindi seguire le modalità previste dall’art. 2471 c.c., in base al quale le partecipazioni di s.r.l. possono essere oggetto di pignoramento soltanto nei confronti del socio che ne è titolare. Per quanto riguarda la procedura, il pignoramento diretto, o documentale, deve essere notificato, dal creditore particolare del socio, al debitore e alla società, per essere poi iscritto e depositato nel registro delle imprese presso la competente Camera di Commercio.
L’esecuzione forzata della partecipazione si articola sostanzialmente in due fasi: la notifica che ha lo scopo di informare la società riguardo ad un evento che incide sulla sua struttura societaria, ma non serve a consentire alla stessa di fornire una dichiarazione di quantità in udienza, come invece avviene nell’espropriazione presso terzi; l’iscrizione nel registro delle imprese che ne dà pubblicità ed è necessaria per garantire l’opponibilità ai terzi degli atti di trasferimento compiuti successivamente alla data di iscrizione del pignoramento.
La procedura prevista dall’art. 2471 C.c. si applica anche quando le quote sono intestate a società fiduciarie, in quanto l’intestazione fiduciaria NON comporta un trasferimento della proprietà dal fiduciante alla fiduciaria. La Corte ha infatti ribadito che, anche in questi casi, la società fiduciaria non è considerata debitor debitoris e, quindi, non può usare, né tanto meno disporre della quota medesima, dato che il potere di disposizione della quota è prerogativa esclusiva del socio debitore, il quale può validamente esercitarlo prescindendo dalla cooperazione degli organi sociali.
Il Principio di Diritto
Con la sentenza in esame, la Corte di Cassazione ha infine affermato il seguente principio di diritto: “Il pignoramento della quota di società a responsabilità limitata – la quale esprime una posizione contrattuale obiettivata, che va considerata come un bene immateriale da equipararsi al bene mobile non iscritto in un pubblico registro -, laddove intestata a società fiduciaria operante ai sensi della l. n. 1966 del 1939, si esegue non già nelle forme del pignoramento presso terzi, ma ai sensi dell’art. 2471, primo comma, cod. civ., nel testo modificato dal d.lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, mediante notificazione sia alla società cui si riferisce la quota sottoposta ad esecuzione, sia alla società che ne è intestataria formale, nonché a mezzo della successiva iscrizione nel registro delle imprese, generando l’intestazione formale un fenomeno di dissociazione tra la situazione di “proprietà sostanziale”, che resta in capo al fiduciante, e la “proprietà formale”, che ricade in capo alla fiduciaria, per effetto del quale la fiduciaria acquista la sola legittimazione all’esercizio dei diritti sociali”.
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1 Ottobre 2024
Il mediatore ha diritto alla provvigione se è stato raggiunto lo scopo economico che le parti si erano prefisse.
Nell’ordinanza n. 16973 del 20 settembre 2024, la Corte di Cassazione ha affermato che il mediatore, come disciplinato dall’art. 1754 Cod. Civ., ha diritto alla provvigione quando la conclusione dell’affare è frutto della sua attività, anche se avviene tra soggetti diversi rispetto a quelli inizialmente messi in contatto. Questo perché, nonostante un cambiamento delle parti, persiste un legame tra chi ha conferito l’incarico e chi ha concluso l’affare.
Il caso e le decisioni di merito
Nel caso esaminato, una società aveva incaricato, tramite il proprio legale rappresentante, un’agenzia immobiliare di vendere l’immobile di cui era proprietaria e che costituiva sostanzialmente l’intero patrimonio sociale. La proposta d’acquisto presentata dal potenziale acquirente presentato dall’agenzia immobiliare era stata inizialmente rifiutata. Successivamente, tutti i soci della società avevano ceduto le proprie quote di partecipazione a un’altra società, collegata ad alcuni di loro, ad un prezzo uguale a quello offerto dal potenziale acquirente presentato dall’agenzia.
L’agenzia immobiliare ha quindi citato in giudizio la società venditrice, la società acquirente e i soci della prima collegati alla seconda, richiedendo la provvigione e, sostenendo che, nonostante il rifiuto iniziale, l’affare fosse stato concluso grazie alla sua intermediazione.
In primo grado, la richiesta dell’agenzia è stata respinta. In appello, invece, la domanda è stata accolta, con conseguente condanna del legale rappresentante della società venditrice al pagamento della provvigione. Quest’ultimo ha quindi presentato ricorso in Cassazione, sostenendo, tra le altre ragioni, la violazione e falsa applicazione dell’ art 1755 c.c. sul presupposto che non fosse stato dimostrato il nesso causale tra l’opera del mediatore e la conclusione dell’affare, vista la differenza delle parti coinvolte rispetto alla fase iniziale.
L’ordinanza della Cassazione
La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso, affermando che il mediatore ha diritto alla provvigione una volta concluso l’affare, indipendentemente dal fatto che le parti siano le stesse inizialmente coinvolte. Non è rilevante, infatti, il cambiamento soggettivo delle parti purché vi sia un legame, anche non necessariamente di rappresentanza, tra la parte originaria che resta debitrice nei confronti del mediatore, e quella con cui l’affare è stato successivamente concluso.
A sostegno di tale approdo, la Suprema Corte ha sottolineato che l’art. 1755 c.c. condiziona il diritto alla provvigione alla conclusione all’“affare” e non del “contratto”. Ciò significa che il mediatore ha diritto al compenso anche se il contratto effettivamente concluso differisce da quello prospettato inizialmente, purché venga raggiunto lo scopo economico per il quale era stato conferito l’incarico, come nel caso in esame in cui l’incarico era stato conferito per la vendita di un immobile ma il contratto concluso era stato quello di cessione di tutte le partecipazioni sociali della società proprietaria dell’immobile stesso.
La Corte ha ribadito che nella nozione di “affare” rientra qualsiasi operazione economica che generi un rapporto obbligatorio tra le parti, anche se realizzata attraverso una serie di atti o con il coinvolgimento di più soggetti, purché volti nel complesso a realizzare un unico interesse economico.
Ogni volta che un affare, come sopra inteso, è stato concluso grazie all’intervento del mediatore, quest’ultimo ha diritto alla provvigione.
Gli elementi fondamentali
La Suprema Corte individua tre punti essenziali:
- Raggiungimento dello scopo economico: il mediatore ha diritto alla provvigione anche se il contratto finale non coincide perfettamente con quello originariamente prospettato, poiché l’art. 1755 c.c. fa riferimento alla nozione di affare e non di contratto;
- Nesso causale: deve esistere un legame diretto tra l’attività svolta dal mediatore e la conclusione dell’affare;
- Continuità tra i soggetti: il diritto alla provvigione sussiste anche quando l’affare viene concluso tra parti diverse da quelle inizialmente coinvolte, a condizione che vi sia una connessione tra il soggetto che ha conferito l’incarico e quello che ha concluso l’affare.
La Suprema Corte ha infine enunciato il seguente principio di diritto: “Il mediatore ha diritto alla provvigione quando le parti concludono l’affare, indipendentemente dalla veste giuridica da esse prescelta, purché venga raggiunto lo scopo economico per cui era stato conferito l’incarico.”
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12 Settembre 2024
La banca deve risarcire i clienti in caso di prelievi fraudolenti, a meno che non ne provi la colpa grave
Nell’ordinanza n. 23683 , pubblicata il 4 settembre 2024, la Corte di Cassazione ha confermato che, in caso di prelievi fraudolenti effettuati tramite carte di debito o di credito, la banca deve risarcire i propri clienti, a meno che non riesca a provare la loro colpa grave. Si tratta di una pronuncia di importanza fondamentale, che rafforza la tutela dei diritti dei consumatori nei loro rapporti con gli istituti di credito in caso di frodi.
Il caso e la decisione di merito
Il caso oggetto del commento si riferisce ad una correntista che aveva subito prelievi fraudolenti dal proprio conto per oltre €5.000 e aveva successivamente presentato ricorso contro l’istituto di credito, chiedendo il risarcimento dei danni subiti per negligenza della banca che, secondo la ricorrente, non aveva adottato le cautele idonee a scongiurare operazioni illecite da parte di terzi. L’istituto di credito, dal canto suo, sosteneva che la cliente fosse invece responsabile di quanto accaduto poiché non aveva prestato sufficiente attenzione nella custodia della propria carta e del PIN e la carta era stata utilizzata “con elevato grado di probabilità” dai suoi familiari. Il ricorso era stato respinto dal giudice di merito e in Appello.
L’ordinanza della Cassazione
Diverso il parere della Suprema Corte che richiama i principi già dettati nella sentenza n.3780 del 2024. Per la Cassazione, la diligenza posta a carico del professionista, per quanto concerne i servizi posti in essere in favore del cliente, ha natura tecnica e deve valutarsi tenendo conto dei rischi tipici della sfera professionale di riferimento, assumendo come parametro quello dell’accorto banchiere. La responsabilità della banca per operazioni effettuate a mezzo strumenti elettronici va quindi esclusa solo se ricorre una situazione di colpa grave dell’utente, ma il riparto degli oneri probatori posto a carico delle parti segue il regime della responsabilità contrattuale. Mentre il cliente è tenuto a provare la fonte del proprio diritto e il termine di scadenza, la banca deve provare il fatto estintivo dell’altrui pretesa e di conseguenza non può omettere la verifica dell’adozione delle misure atte a garantire la sicurezza del servizio. Poiché la sottrazione dei codici attraverso tecniche fraudolente rientra nel rischio d’impresa, l’istituto di credito per liberarsi dalla propria responsabilità deve dimostrare la sopravvenienza di eventi che si collochino al di là dello sforzo diligente a lei richiesto.
La Cassazione richiama, inoltre, la sentenza n.26916 del 2020, secondo la quale è del tutto ragionevole ricondurre nel rischio professionale della banca, la possibilità di un utilizzo dei codici d’accesso da parte dei terzi, non attribuibile a dolo del titolare o da comportamenti talmente incauti da non poter essere fronteggiati in anticipo. L’erogatore dei servizi, a cui è richiesta una diligenza tecnica, sulla base di una valutazione di prevedibilità ed evitabilità, è quindi responsabile a meno che non riesca a fornire la prova della riconducibilità dell’operazione a colpa grave da parte del cliente.
La Cassazione accoglie otto dei nove punti del ricorso e rinvia la causa alla Corte d’Appello di Salerno, in diversa composizione, per il corrispondente nuovo esame e per la regolamentazione delle spese del giudizio di legittimità.
Le conseguenze a favore dei correntisti
L’ordinanza della Cassazione rappresenta un importante passo avanti nella tutela dei diritti dei correntisti e nella lotta alle frodi bancarie, apportando tre conseguenze concrete che possiamo così sintetizzare:
- Responsabilità dell’istituto di credito: in caso di prelievi fraudolenti, la responsabilità ricade sulla banca, a meno che quest’ultima non dimostri la colpa grave del correntista;
- Maggiore tutela per i clienti: grazie ai principi enunciati dalla Suprema Corte, i correntisti frodati sono maggiormente garantiti nella richiesta di rimborso delle somme sottratte da terzi in modo fraudolento;
- Più sicurezza del sistema bancario: le pronunce della Cassazione stimolano gli istituti di credito a incrementare gli investimenti nelle misure di sicurezza per proteggere meglio i propri clienti.
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4 Settembre 2024
Il dolo contrattuale secondo la Cassazione: tra annullamento del contratto e tutela risarcitoria
Con l’Ordinanza n. 17988, pubblicata il 1° luglio 2024, la seconda sezione civile della Corte di Cassazione ha affrontato i principali profili della disciplina del dolo contrattuale, focalizzando l’attenzione sui criteri distintivi tra dolo principale e dolo incidente. Categorie che, secondo la decisione in commento, sono state sovrapposte nella motivazione della sentenza impugnata che, pertanto, è stata cassata con rinvio.
Il caso e la decisione di merito
La fattispecie oggetto dell’ordinanza in commento riguarda due contratti di compravendita di automobili usate cui era stato manomesso il contachilometri.
La sentenza di appello ha disposto l’annullamento per dolo dei predetti contratti di compravendita in ragione della contraffazione dei chilometri percorsi dalle vetture alienate, motivando in particolare sulla base del fatto “che l’errore indotto dal raggiro era stato tale da determinare la parte acquirente a concludere il contratto che altrimenti non avrebbe concluso, sicché era possibile ritenere che la società appellata non avrebbe acquistato i due mezzi oppure ne avrebbe certamente discusso in modo più conveniente il prezzo, nel contesto di una scelta che non spettava al giudicante presumere, essendo del tutto comprensibile che la circostanza accertata avrebbe incrinato il rapporto fiduciario tra le parti”.
L’Ordinanza della Cassazione
Secondo la Suprema Corte la motivazione della sentenza impugnata nella parte relativa all’annullamento dei contratti per dolo (nel passaggio sopra riportato) sarebbe avvinta da un contrasto tra affermazioni tra loro inconciliabili. Infatti delle due l’una: i raggiri del venditore possono aver indotto il contraente a concludere un accordo che, altrimenti, non avrebbe concluso (nel qual caso il dolo principale determina la conseguenza dell’annullamento del contratto) oppure, diversamente, possono incidere sul prezzo di compravendita ossia sulla conclusione del contratto a condizioni diverse da quelle pattuite (con diritto al risarcimento del danno).
Per chiarire quanto precede la Cassazione effettua una disamina della disciplina del dolo contrattuale ed in tal senso riconosce che il dolo è causa di annullamento del contratto quando i raggiri usati da uno dei contraenti siano tali che senza di essi l’altra parte non avrebbe contrattato, concretizzandosi in un inganno che abbia ad oggetto circostanze essenziali del negozio, determinanti per la prestazione del consenso del raggirato.
Diversamente, il dolo incidente consiste in raggiri non determinanti del consenso, sicché il contratto è valido benché senza di essi sarebbe stato concluso a condizioni diverse.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, per l’annullamento del contratto occorre che il dolo ingeneri nella vittima un errore influente sull’an della prestazione del consenso, il che sussiste al verificarsi delle seguenti condizioni: “a. che vi sia una condotta, commissiva od omissiva, materializzata da raggiri, ossia da un complesso di manovre e artifizi; b. che tale condotta sia riconducibile ad un animus decipiendi del deceptor, ossia che vi sia una specifica intenzione di ingannare; c. che in conseguenza il deceptus sia caduto in errore; d. che vi sia un nesso di causalità sia tra i raggiri e l’errore sia tra la condotta fraudolenta e la decisione del deceptus di stipulare il contratto”.
Il dolo può quindi distinguersi in commissivo: qualora siano ravvisabili gli estremi di un complesso di artifizi volti ad ingannare la vittima; od omissivo: in tal caso, però il silenzio può acquistare rilevanza solo se si inserisce nel complesso di malizie od astuzie dirette a realizzare un inganno.
A fronte dei concetti che precedono la Corte di Cassazione cassa la sentenza di appello con rinvio invitando il giudice del rinvio a chiarire se i raggiri hanno avuto un’incidenza determinante sulla stipula del contratto, oppure se abbiano inciso esclusivamente sulle condizioni contrattuali.
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25 Luglio 2024
La conservazione dei metadati di posta elettronica dei dipendenti può configurare controllo indiretto dei lavoratori?
Con il provvedimento del 6 giugno 2024, n. 364 [doc. web n. 10026277], l’Autorità garante per la protezione dei dati personali, a seguito delle osservazioni pervenute nel corso della consultazione pubblica, ha adottato una versione aggiornata del documento d’indirizzo “Programmi e servizi informatici di gestione della posta elettronica nel contesto lavorativo e trattamento dei metadati”. Questo documento non introduce di per sé nuovi adempimenti, ma intende fare chiarezza sulle disposizioni applicabili ed in particolare sulle possibili implicazioni giuslavoristiche della raccolta, conservazione e analisi dei metadati di posta elettronica dei dipendenti.
Cosa si intende per metadati
Innanzitutto, il Garante ha chiarito la definizione dei metadati, che non riguardano il contenuto del messaggio, ma comprendono le informazioni registrate nei log generati dai sistemi server di gestione e smistamento della posta elettronica (MTA = Mail Transport Agent) e dalle postazioni client (MUA = Mail User Agent).
I metadati di un messaggio di posta elettronica includono, quindi:
- Indirizzi e-mail del mittente e del destinatario
- Indirizzi IP dei server o dei client
- Orari di invio, ritrasmissione o ricezione del messaggio
- Dimensione del messaggio e presenza/dimensione di eventuali allegati
- Oggetto del messaggio, in alcuni casi
La loro caratteristica è quella di essere registrati automaticamente dai sistemi di posta elettronica, a prescindere dalla volontà dell’utente.
Conservazione dei metadati in materia di controlli a distanza: aspetti giuslavoristici
La raccolta e conservazione dei metadati e dei log necessari per il funzionamento del sistema di posta elettronica è consentita per un periodo limitato a pochi giorni, indicato a titolo orientativo in non oltre 21 giorni
La raccolta e conservazione prolungata dei metadati dei log di posta elettronica, “per un periodo esteso, in assenza di idonei presupposti giuridici, può comportare la possibilità per il datore di lavoro di acquisire informazioni riferite alla sfera personale o alle opinioni dell’interessato” e quindi costituire un controllo indiretto a distanza dell’attività dei lavoratori, richiedendo le garanzie previste dall’art. 4, comma I, dello Statuto dei Lavoratori (accordo sindacale o autorizzazione della direzione territoriale del lavoro).
Compliance dei datori di lavoro rispetto alla normativa
Le indicazioni dell’Autorità Garante per la protezione dei dati impongono, quindi, ai datori di lavoro, pubblici e privati, di rispettare i termini di conservazione dei metadati, come indicato nel documento di indirizzo.
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19 Luglio 2024
L’eccezione di usurarietà è idonea a superare il giudicato sul titolo esecutivo?
In una recente pronuncia, il Tribunale di Brindisi adotta un’interpretazione che si pone in discontinuità rispetto ai tradizionali orientamenti giurisprudenziali in materia e che offre nuovi margini di tutela per il debitore. Contributo a cura degli avvocati Alfredo Talenti e Riccardo Paglia. Pubblicato su N&T Plus Diritto – Il Sole 24 Ore.
Il Tribunale di Brindisi, con la sentenza depositata l’11 maggio 2024, ha affrontato il tema dei poteri del Giudice dell’opposizione all’esecuzione, in relazione al rapporto posto a fondamento del titolo esecutivo giudiziale. La sentenza è di interesse in quanto il Tribunale ha adottato un’interpretazione che si pone in discontinuità rispetto ai tradizionali orientamenti giurisprudenziali in materia e che offre nuovi margini di tutela per il debitore.
In sintesi, il Tribunale sostiene che anche il giudice dell’opposizione all’esecuzione ha il potere/dovere di controllo relativamente al contratto di finanziamento sulla cui base si è formato il titolo esecutivo in ordine ai presunti profili di nullità, per violazione di norme imperative di ordine pubblico in materia di usura e di norme imperative comunitarie in materia antitrust.
Non sarebbe di ostacolo, infatti, la formazione del giudicato sul titolo esecutivo e neppure il fatto che l’usura possa essere sopravvenuta rispetto alla formazione del titolo esecutivo.
Il caso oggetto della pronuncia
La decisione in commento origina da un’opposizione all’esecuzione, ex art. 615 c.p.c., nella quale l’opponente lamenta la nullità, o comunque l’illegittimità, del contratto di finanziamento chirografario e della relativa fideiussione sulla cui base era stato emesso il decreto ingiuntivo posto a fondamento dell’intrapresa azione esecutiva. L’opponente invocava diverse ragioni, tra le quali l’usurarietà della pretesa creditoria e la violazione della normativa comunitaria antitrust.
L’iter argomentativo seguito dal Tribunale di Brindisi
Il Tribunale, innanzitutto, rammenta il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di poteri di cognizione riconosciuti al giudice dell’esecuzione e dell’opposizione all’esecuzione.
In base a tale orientamento richiamato dal Tribunale, i titoli esecutivi giudiziali (decreto ingiuntivo, sentenza, ecc.) coprono i fatti estintivi e modificativi del credito occorsi prima della formazione del titolo. Pertanto nell’ambito di qualsiasi azione esecutiva intrapresa sulla base di titoli formati giudizialmente, non possono essere messi in discussione fatti anteriori alla definitività del titolo, che siano stati dedotti o deducibilinel giudizio in cui si è formato il titolo stesso. Il giudice dell’esecuzione o dell’opposizione all’esecuzione non può, quindi, effettuare alcun controllo intrinseco sul titolo, salvo valutare fatti impeditivi, modificativi o estintivi del rapporto consacrato nel provvedimento passato in giudicato, che si siano verificati successivamente alla formazione del giudicato (sul punto si confronti Cass. sent. n. 26110 del 5/9/2022).
Il Tribunale di Brindisi richiama, peraltro, le decisioni gemelle nn. 11066 e 11067 del 2012 della Cassazione a Sezioni Unite, pronunciatesi sotto il diverso profilo dell’interpretazione del titolo da parte del giudice dell’opposizione all’esecuzione a favore anche dell’utilizzo di elementi extra testuali. Tali sentenze, secondo il Tribunale avrebbero ampliato i poteri di cognizione del giudice dell’esecuzione riconoscendo la possibilità di un controllo del titolo esecutivo in ipotesi di sua prospettata nullità o illegittimità per violazione di norme imperative di ordine pubblico o di norme imperative comunitarie.
La sentenza in esame affronta, quindi, lo specifico tema dell’eccezione di usurarietà degli interessi sollevata in sede di opposizione all’esecuzione. Detta eccezione – anche alla luce dei richiamati sviluppi giurisprudenziali – si presta, secondo il Tribunale di Brindisi, a sottrarsi al giudicato formatosi sul titolo esecutivo. Quanto precede si giustifica, in particolare, sulla scorta del fatto che l’ordinamento non può tollerare di dare corso ad una pretesa creditoria illegittima che peraltro integra una ipotesi di reato.
Ciò posto, il Tribunale dà atto di alcuni orientamenti interpretativi che, al fine di contemperare il rispetto di norme imperative con il principio di intangibilità del giudicato, riconoscono la possibilità di superare il giudicato, ma esclusivamente in ipotesi di usura sopravvenuta rispetto al consolidarsi del titolo esecutivo.
La pronuncia in commento, sposa, invece, un orientamento più radicale, per cui la pretesa usuraria è inesigibile in ogni caso, a prescindere dalla sopravvenienza o meno dell’usura rispetto alla formazione del giudicato.
Il suddetto principio viene sostenuto sulla base dei diversi piani sui quali operano l’intangibilità del giudicato e l’inesigibilità della pretesa usuraria: la prima attiene alla formazione del titolo, mentre la seconda alla sua fase attuativa.
Alla luce di quanto sopra e considerando anche il disvalore penale dell’usurarietà della pretesa al momento della sua concreta attuazione, la richiesta di interessi usurari, anche se cristallizzata nel titolo esecutivo, è contraria alla buona fede oggettiva, giustificando così il superamento del giudicato.
La decisione ed il principio di diritto
Alla luce dell’iter motivazionale descritto il Tribunale di Brindisi dichiara inammissibili le doglianze dell’attore relative al rapporto di finanziamento e alla relativa fideiussione, già dedotte o deducibili nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, mentre ammette ed affronta nel merito le eccezioni afferenti ai profili di nullità del contratto di finanziamento per violazione di norme imperative in materia di usura e della normativa comunitaria antitrust.
In diritto la pronuncia in esame adotta, pertanto, una linea interpretativa innovativa che consente di superare in sede di opposizione all’esecuzione le preclusioni derivanti dal giudicato formatosi sul titolo esecutivo quando le contestazioni sul credito oggetto del titolo esecutivo attengano a norme imperative di ordine pubblico o di rilevanza comunitaria, quali la normativa antiusura ed antitrust.
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4 Luglio 2024
Preliminare di compravendita di immobile con abusi edilizi: quale tutela è riconosciuta all’acquirente?
Acquistare un immobile è un passo di grande importanza per aziende e privati, ma può implicare il rischio di scoprire opere abusive non conformi alla piantina originaria e non regolarizzate. Come ci si può difendere in queste situazioni?
Con l’ordinanza n. 17148 del 21 giugno 2024, la Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, ha regolato il caso in cui l’acquirente, dopo la stipula del contratto preliminare, si era reso conto dell’esistenza di abusi edilizi insanabili all’interno dell’immobile, e conseguentemente adiva l’autorità giudiziaria chiedendo la risoluzione del contratto e la restituzione del doppio della caparra, ai sensi dell’art. 1385 del Codice civile.
Il caso
Nel caso di specie, l’acquirente aveva versato una caparra all’atto di stipula del contratto preliminare, ma dopo una perizia da parte di un tecnico di fiducia, si era accorto che l’immobile presentava gravi irregolarità edilizie, non avendo mai ottenuto la concessione edilizia, né la sanatoria, per tutta una serie di opere abusive, tra cui la creazione di una nuova finestra e di un bagno.
Inizialmente l’acquirente aveva chiesto in via stragiudiziale la restituzione del doppio della caparra, ma dopo il rifiuto da parte del venditore, aveva deciso di ricorrere in giudizio, azionando il suddetto diritto come conseguenza dell’esercizio del recesso dal contratto preliminare di compravendita immobiliare.
Il Tribunale di primo grado aveva accolto la domanda di recesso dell’acquirente e ordinato al venditore la restituzione del doppio della caparra. La decisione era stata poi confermata in Appello, poiché mancava la concessione edilizia per le opere realizzate e non era possibile ottenere la DIA (Denuncia di Inizio Attività) a causa degli abusi edilizi originari.
L’ordinanza della Cassazione
Il venditore aveva quindi deciso di ricorrere in Cassazione, sostenendo che l’acquirente non poteva chiedere la restituzione del doppio della caparra, in quanto la presenza di abusi edilizi insanabili portava alla nullità del contratto preliminare, con conseguente illegittimità del recesso e della richiesta di restituzione del doppio della caparra.
Con l’ordinanza n. 17148, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte di Appello, sottolineando la validità del contratto preliminare. Per la Cassazione, in questi casi, l’azione deve essere ricondotta nell’ambito di operatività dell’art. 1489 del Codice civile, in quanto la mancanza del titolo edilizio abitativo (o della concessione edilizia in sanatoria) è considerata una limitazione del libero godimento dell’immobile o, quanto meno, una diminuzione del suo valore.
Inoltre, se è indispensabile che l’atto di compravendita di un immobile indichi gli estremi della concessione edilizia, pena la sua nullità, lo stesso non vale per il contratto preliminare, i cui effetti sono obbligatori e non traslativi.
Per il giudice di Appello, così come per quello di primo grado, nonostante la presenza nel preliminare di compravendita di una dichiarazione formale che attestava la realizzazione dell’edificio prima del 1967 (anno di entrata in vigore della c.d. Legge Ponte che ha esteso molti degli obblighi previsti dalla Legge Urbanistica del 1942), lo stesso era stato oggetto di opere successive al 1967 senza un titolo urbanistico valido. La falsa dichiarazione del venditore non è però da considerarsi un difetto originario del contratto preliminare tale da invalidarlo, ma ha conseguenze sulla sua esecuzione e sull’adempimento degli obblighi contrattuali dallo stesso discendenti.
Per tale motivo, l’acquirente può recedere dal contratto preliminare e richiedere il doppio della caparra versata.
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27 Giugno 2024
Il mutuo a tasso fisso è viziato se non indica espressamente l’ammortamento alla francese?
La mancata indicazione del regime di capitalizzazione composto degli interessi passibili e della modalità di ammortamento alla francese nel piano di ammortamento allegato al contratto di mutuo a tasso fisso non comporta di per sé la nullità del contratto di mutuo stesso. Questa è la conclusione raggiunta nella recente sentenza n. 15130 del 29 maggio 2024 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione che hanno escluso, nelle circostanze già menzionate, la nullità di un contratto di mutuo a tasso fisso, sia sotto il profilo degli obblighi alla trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra banca e clienti previsti dal TUF sia in relazione alla determinatezza e/o determinabilità dell’oggetto del contratto richiesta in generale dal Codice civile.
La decisione della Cassazione offre importanti riflessioni sul rapporto tra mutuante e mutuatario, in particolare sugli obblighi informativi delle banche e sulla consapevolezza del consumatore riguardo all’applicazione di specifiche formule matematiche finanziarie come nel caso dell’ammortamento alla francese.
Il piano di ammortamento alla francese
Si tratta del metodo di rimborso del mutuo più diffuso in ambito bancario. Prevede che le rate siano composte inizialmente da una quota maggiore di interessi rispetto al capitale. In caso di mutui a tasso fisso, le rate hanno sempre un importo costante per tutta la durata del finanziamento, ma la suddivisione tra la quota capitale e la quota interessi, varia nel corso del mutuo: nella prima parte, la quota interessi è maggiore rispetto alla quota capitale; nella seconda parte, la quota interessi diminuisce progressivamente e la quota capitale aumenta. Questa modalità di ammortamento comporta che nelle prime fasi del mutuo si paghino principalmente gli interessi, mentre verso la fine del periodo di ammortamento, la parte maggiore della rata sarà destinata a rimborsare il capitale.
Giudizio di merito
Nel caso di specie, il Tribunale di Salerno, con ordinanza del 19 luglio 2023, ha sospeso una causa in cui la parte attrice richiedeva il rimborso degli interessi “indebitamente riscossi” e la rideterminazione del piano di ammortamento applicando il tasso sostitutivo “B.O.T.” (art. 117, comma 7, T.U.B.).
Il giudice di merito ha rimesso la questione alla Corte di Cassazione per chiarire se un mutuo a tasso fisso, con TAN espressamente previsto e un piano di ammortamento allegato, ma senza indicazione esplicita del regime di capitalizzazione composto degli interessi passivi e della modalità di ammortamento alla francese, possa considerarsi viziato per indeterminatezza o indeterminabilità dell’oggetto del contratto (art. 1346 codice civile) e/o per violazione della trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra banca e clienti (art. 117 Testo Unico Bancario).
Sentenza della Cassazione
La Suprema Corte ha analizzato il contratto di mutuo in questione e ha evidenziato che il piano di ammortamento allegato al contratto indicava il numero e la composizione delle rate costanti con la suddivisione della quota capitale e della quota interessi. Ciò consentiva, quindi, al consumatore di conoscere la somma totale da rimborsare, in conformità con le disposizioni della Banca d’Italia del 29 luglio 2009.
Sul versante della trasparenza, le Sezioni Unite hanno chiarito che le banche adempiono agli obblighi informativi mediante l’allegazione del piano di ammortamento al contratto di mutuo, consentendo al consumatore di effettuare le proprie valutazioni, attraverso il confronto con altri prodotti bancari. L’ammortamento alla francese comporta una struttura delle rate composte da quote di capitale e interessi variabili, senza che questo configuri anatocismo.
Per la Cassazione la mancata indicazione del regime di capitalizzazione composto e della modalità di ammortamento alla francese non rende nullo il contratto di mutuo, purché sia allegato un piano di ammortamento che permetta al consumatore di comprendere la somma totale da rimborsare.
La sentenza afferma, infine, che il maggior carico di interessi nell’ammortamento alla francese non deriva da una moltiplicazione tecnica degli stessi, ma dalla scelta concordata di un piano di rimborso con rata costante. Gli interessi convenzionali sono calcolati solo sulla quota di capitale residuo, rispettando il disposto dell’art. 1283 cod. civ.
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14 Giugno 2024
Vizi del bene compravenduto: la Cassazione delinea i caratteri dell’aliud pro alio
La Suprema Corte di Cassazione, con la Sentenza n. 13214 del 14 maggio 2024 ha affermato che sussiste la vendita di aliud pro alio (che dà luogo ad un’ordinaria azione di risoluzione contrattuale, svincolata dai termini e condizioni di cui all’art. 1495 c.c.) quando la causa concreta che aveva giustificato l’atto traslativo non sia realizzabile in modo irrimediabile, pregiudicando la stessa identità della cosa acquistata, con la conseguenza che la res promessa si riveli funzionalmente del tutto inidonea ad assolvere allo scopo economico-sociale per il quale era stata commissionata.
Il caso e la decisione di merito
Tra due società intercorreva una fornitura di calcestruzzo per la realizzazione del massetto di sostegno del pavimento di uno stabilimento industriale. Tuttavia, il calcestruzzo si dimostrava inidoneo all’utilizzo previsto, in quanto non sufficientemente resistente, determinando l’insorgenza di fratture sulla pavimentazione.
In seguito all’espletamento di consulenza tecnica d’ufficio risultava che il calcestruzzo compravenduto non corrispondeva per caratteristiche a quello commissionato (classe RCK 250), essendo di classe RCK 200 e, quindi con minor capacità di resistenza e, pertanto, inidoneo all’uso convenuto.
A fronte di quanto precede le corti di merito hanno riconosciuto che l’inadempimento di parte venditrice integrasse la vendita di aliud pro alio con conseguente diritto dell’acquirente di agire per la risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c., con svincolo dagli stringenti termini di prescrizione e decadenza imposti dall’art. 1495 c.c. per la contestazione di vizi della cosa compravenduta.
Il giudizio della Cassazione
La corte di legittimità – adita in relazione ai presupposti per la configurazione della fattispecie dell’aliud pro alio – ha affermato che “ sussiste consegna di aliud pro alio, che dà luogo all’azione contrattuale di risoluzione ai sensi dell’art. 1453 c.c., qualora il bene consegnato sia completamente eterogeneo rispetto a quello pattuito, per natura, individualità, consistenza e destinazione, cosicché, appartenendo ad un genere diverso, si riveli funzionalmente del tutto inidoneo ad assolvere allo scopo economico-sociale della res promessa e, quindi, a fornire l’utilità presagita”.
Viceversa – i.e. in caso di mera carenza di requisiti sanabili, non costituenti un elemento di identificazione del bene e senza un definitivo pregiudizio della idoneità rispetto alla categoria di merce cui il compratore intendeva destinare la cosa – si fuoriesce da tale categoria giuridica e si rientra piuttosto nella fattispecie di vizi redibitori, oppure in quella della mancanza di qualità essenziali. Queste ultime fattispecie sono soggette ai termini previsti dall’art. 1495 c.c. i) per la denuncia dei vizi – di 8 giorni dalla scoperta, salvo diverso termine previsto dalle parti o dalla legge; ii) prescrizionale per l’avvio dell’azione – di un anno dalla consegna.
L’azione di risoluzione per vendita dell’aliud pro alio non è soggetta a tali termini e ciò pone il contraente adempiente in una posizione nettamente più favorevole rispetto a chi agisce nell’ambito delle fattispecie da ultimo ricordate. Spesso accade, infatti, che l’acquirente si avveda di problemi con forte connotazione tecnica ben oltre l’anno della consegna o che debba dimostrare che si trattava di vizi occulti e la data di scoperta per superare l’eccezione di decadenza spesso sollevata dal venditore.
Nel caso di specie la Cassazione rileva che dalla decisione impugnata risulta la scarsa resistenza del calcestruzzo rispetto alle caratteristiche richieste dall’acquirente, senza che, tuttavia, emerga una deficienza strutturale del bene tale da pregiudicarne l’appartenenza al genus; pertanto, cassa la decisione di appello con rinvio, affinché venga approfondita l’incidenza della minore resistenza evocata del calcestruzzo rispetto alla possibilità di assolvere alle sue funzioni.
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31 Maggio 2024
Per il tribunale di Roma l’inversione dell’onere della prova previsto dall’art.67 della legge fallimentare non si applica ai sub-acquirenti
I sub-acquirenti che hanno acquistato da chi, a sua volta, aveva conseguito il bene dal fallito sono tutelati dall’azione revocatoria secondo il regime ordinario, non operando nei loro confronti le previsioni dell’art. 67 della Legge Fallimentare che stabilisce presunzioni e inversioni degli oneri di prova in favore della curatela.
Nella sentenza di recentissima pubblicazione, il Tribunale di Roma ha chiarito che l’art. 67 della Legge Fallimentare, non facendo alcun riferimento alla sorte dei diritti di coloro che abbiano sub acquistato dal primo acquirente dal debitore fallito, è inapplicabile agli atti di acquisto di tali sub-acquirenti.
La circostanza che la revocatoria ordinaria e quella fallimentare presentino identità sostanziale e funzionale, come è confermato sia dalla norma di collegamento dell’art. 2904 c.c. che da quella speculare dell’art. 66, co. 1 Legge Fallimentare, non è di per sé sufficiente a estendere l’operatività del regime speciale previsto dall’art. 67 della Legge Fallimentare anche ai sub-acquirenti.
Nei confronti dei sub-acquirenti è destinato a trovare applicazione il regime generale dettato in materia di azione revocatoria ordinaria e specificamente dall’art. 2901 c.c. ultimo comma che fa salvi i diritti sub acquistati a titolo oneroso dai terzi di buona fede. È onere di chi agisce, per far accertare l’inefficacia dell’atto intervenuto fra il debitore fallito ed il suo avente causa diretto e loro dante causa, provare la sussistenza dell’elemento soggettivo della mala fede, anche nel caso in cui l’attore sia il curatore fallimentare.
In questi casi, quindi, il curatore non potrà giovarsi dell’inversione dell’onere della prova previsto dal primo comma dell’art. 67 della Legge Fallimentare che stabilisce la revocabilità di tutti gli atti ivi elencati “salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore” e, viceversa, dovrà dare piena prova della mala fede dei sub-acquirenti, da individuarsi nella consapevolezza, da parte dei questi ultimi, del fatto che l’atto di acquisto intervenuto fra il suo dante causa ed il debitore fallito era revocabile ai sensi dell’art. 67 1.f. (cfr. ex multis Cass. civile n. 40862/21).
È stato altresì precisato che, laddove ci si trovi dinnanzi ad una sequenza del tipo atto immediato gratuito – atto mediato oneroso, al curatore spetta provare la mala fede del sub-acquirente in rapporto all’evento pregiudizievole per i creditori consistito nella gratuità del primo atto posto in essere dal fallito che è all’origine della catena dei trasferimenti (vedi Cass. civile n. 2772/12).
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27 Maggio 2024
La Cassazione sulla rilevanza delle ragioni poste a fondamento del licenziamento ai fini della sua qualificazione e della relativa disciplina
Con l’ordinanza n. 10640 del 19.04.2024 la Corte di Cassazione ha confermato la sentenza impugnata che aveva dichiarato la nullità del licenziamento motivato sulla scorta di ripetuti periodi di malattia che, pur non superando il periodo di comporto, avevano inciso negativamente sull’organizzazione e produttività aziendale.
Tale decisione fonda il suo articolato ragionamento sull’autonomia del licenziamento per superamento del periodo di comporto (assimilabile ad un licenziamento per giustificato motivo oggettivo) rispetto al licenziamento c.d. ‘per scarso rendimento’ (che costituisce una ipotesi di recesso del datore per grave inadempimento e, quindi, per giusta causa o giustificato motivo soggettivo) con la conseguenza che la sussunzione della fattispecie concreta in una ipotesi, piuttosto che nell’altra, non può essere rimessa alla libera scelta del datore di lavoro, in virtù di un mero atto di qualificazione del recesso, svincolato dalla valutazione della concreta ragione posta a fondamento del licenziamento.
Il fatto oggetto del giudizio
Il caso concreto sottoposto all’attenzione della Suprema Corte ha ad oggetto l’impugnazione del provvedimento di licenziamento intimato per giustificato motivo oggettivo, a causa delle frequenti assenze per malattia che avevano inciso negativamente sull’organizzazione e sulla produttività dell’azienda per cui lavorava. Il Tribunale del lavoro e successivamente la Corte d’Appello avevano accolto le domande del lavoratore, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, in quanto avvenuto prima che scadessero i termini del periodo di comporto.
La decisione e principio enunciato dalla Cassazione
La Suprema Corte, nel confermare la decisione di merito, ha ribadito che con riferimento alle fattispecie concrete di licenziamento occorra tenere ben distinte le ipotesi in cui ci si dolga della condotta del lavoratore, cui si addebitano forme di inadempimento relative alla prestazione attesa dal datore di lavoro (dando luogo ad un licenziamento disciplinare) rispetto al licenziamento per superamento del periodo di comporto ex art. 2110 c.c. (che prescinde da qualsivoglia inadempimento e che trova fondamento in una astratta predeterminazione del punto di equilibrio tra interesse del lavoratore a disporre di un congruo periodo di assenze per malattia e quello del datore di lavoro di mantenere una adeguata organizzazione aziendale).
In particolare, nel caso di specie, il riferimento contenuto nel licenziamento impugnato era allo scarso rendimento del lavoratore che non avrebbe adempiuto agli obblighi contrattuali di impegno e diligenza, ottenendo risultati che si collocavano di gran lunga sotto la media degli altri lavoratori. Il discostamento da tali parametri può costituire un indice di “scarso rendimento” che, se specificamente documentato, consente al datore di avviare un procedimento disciplinareche può portare al licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo. Tuttavia il licenziamento intimato dal datore si riferiva poi ai brevi ma ripetuti periodi di malattia del lavoratore che avevano inciso negativamente sull’organizzazione aziendale.
Il riferimento del datore di lavoro nel licenziamento alle assenze per malattia e, quindi, ad un’ipotesi di licenziamento ex art. 2110 c.c. determina l’applicabilità della disciplina ivi contenuta che prevale, per la sua specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per impossibilità parziale sopravvenuta della prestazione lavorativa sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali. Ne consegue che il datore non può recedere dal rapporto prima del superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL di settore. Pertanto – considerato che nel caso concreto il periodo di comporto non era stato superato – è corretta la decisione di merito che ha dichiarato la nullità dell’intimato licenziamento.
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29 Aprile 2024
L’equo compenso entra nel Codice Deontologico Forense. Previste sanzioni leggere
Nella seduta del 23 febbraio 2024, il Consiglio Nazionale Forense (CNF), in esecuzione della legge 49 del 2023, ha approvato la formulazione definitiva del nuovo art. 25bis del codice deontologico forense in materia di equo compenso, previsione che entrerà in vigore in seguito alla sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Le sanzioni previste sono leggere in quanto, come sottolinea la relazione di approfondimento del CNF, il professionista che accetta un compenso iniquo è già in qualche modo una vittima di un cliente “forte”, e non andrebbe ulteriormente vessato da obblighi e/o sanzioni. La nuova formulazione consente, inoltre, all’avvocato di utilizzare il rilievo disciplinare nelle trattative con i clienti “forti”, per ottenere condizioni contrattuali più vantaggiose.
Quali sono gli obblighi previsti dal nuovo art. 25bis
A norma della precitata disposizione all’avvocato è fatto divieto di concordare o preventivare un compenso che non sia ‘giusto, equo e proporzionato alla prestazione professionale richiesta e non sia determinato in applicazione dei parametri forensi vigenti’.
Inoltre, il secondo comma dell’articolo in commento impone all’avvocato che stipuli una qualsiasi forma di accordo con il cliente di avvertire per iscritto il cliente che il compenso per la prestazione professionale deve rispettare i criteri stabiliti dalle disposizioni vigenti in materia, a pena di nullità della pattuizione.
Le sanzioni in caso di violazione
Nella relazione di accompagnamento al testo del nuovo art. 25bis si legge che gli illeciti deontologici ivi previsti, presentando diversa lesività, devono implicare l’applicazione di sanzioni proporzionate e quindi la sanzione minima dell’avvertimento in caso di violazione dell’obbligo di comunicazione e la sanzione più grave della censura nel caso in cui l’avvocato violi in modo sostanziale la normativa sull’equo compenso accettando compensi iniqui.
I risvolti pratici per gli avvocati
In seguito all’entrata in vigore della disposizione in commento gli avvocati dovranno quindi – oltre a rispettare nella sostanza la previsione di equità nella determinazione dei compensi – inserire nelle pattuizioni dei compensi anche l’avvertimento in merito al rispetto dei vigenti criteri tabellari a pena di nullità.
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16 Aprile 2024
Finanziamenti soci: postergazione nel rimborso e aumenti di capitale
Sommario:
- Elementi che caratterizzano il finanziamento soci rispetto ad altre forme di dotazione di denaro in favore della società
- Quando un finanziamento soci deve considerarsi postergato ex art. 2467 c.c. e quindi rimborsabile solo dopo che la società avrà soddisfatto gli altri creditori?
- È possibile versare un aumento di capitale compensando il credito del socio da finanziamento postergato?
I finanziamenti soci sotto la lente dell’art. 2467 c.c.
L’art. 2467 c.c. dispone che il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori, chiarendo che “s’intendono finanziamenti dei soci a favore della società quelli, in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.”
La norma in esame detta una regola di interpretazione, per cui sono finanziamenti le erogazioni effettuate dal socio in un momento di squilibrio patrimoniale della società, e una regola di giudizio, per cui i soci finanziatori sono postergati ai creditori estranei alla società nella restituzione di quanto erogato, ma non include alcun riferimento a una forma legale imposta per detti finanziamenti.
Per valutare la natura di una erogazione di denaro dal socio alla società e stabilire se sia qualificabile come finanziamento o meno si deve, quindi, fare riferimento ai criteri generali valevoli per il diritto societario. In linea generale si considerafinanziamento ogni atto che comporti un’attribuzione patrimoniale accompagnata dall’obbligo della sua futura restituzione senza che rilevino la misura della partecipazione sociale e l’eventuale proposizione di azioni giudiziarie volte a recuperare il credito. In caso di incertezza, è determinante l’esame di come l’operazione sia stata contabilizzata nel bilancio d’esercizio, “che costituisce il documento contabile fondamentale nel quale la società dà conto dell’attività svolta e che rende detta operazione opponibile ai terzi, compreso l’Erario, essendo invece irrilevante la modalità di conferimento prescelta all’interno dell’ente” (Cass. civ., n. 24746/2020 in Giur. It., 2021, 8-9, 1886, nota di FRASSY), stante il rilievo anche pubblicistico che quest’ultimo assume con la pubblicazione nel registro delle imprese.
Le condizioni che fanno scattare la postergazione
La “ratio legis” dell’art. 2467 c.c. consiste nell’intento di contrastare la non infrequente sottocapitalizzazione, fenomeno determinato dalla convenienza dei soci a ridurre l’esposizione al rischio d’impresa, apportando nuove risorse a disposizione della società nella forma del finanziamento, anziché in quella appropriata del conferimento. In questo modo il rischio da continuazione dell’attività in una situazione di crisi di fatto viene traslato sui creditori e sui terzi, con eventuale profitto dei soci ed aggravamento del dissesto a scapito dei creditori (in tal senso Tribunale Ancona, Sez. spec. in materia di imprese, Sentenza, 31/08/2021, n. 1036).
La ricostruzione delle esigenze di tutela sottese alla norma in esame aiuta a comprendere perché non tutti i finanziamenti soci sono soggetti alla postergazione ma solo quelli che sono stati effettuati o i) in un momento di eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure ii) in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.
Si tratta di condizioni tra loro alternative ed è pertanto sufficiente che ricorra una sola delle stesse perché sia applicabile lo strumento rimediale della postergazione nel rimborso del finanziamento soci.
La valutazione della sussistenza delle condizioni sopra ricordate va riferita temporalmente in primis al momento dell’erogazionedel finanziamento da parte del socio, con la precisazione che “la qualificazione giuridica del finanziamento come anomalo non è influenzata, né rimossa da fatti successivi (quindi anche da versamenti in conto capitale), poiché l’azione postuma non rimuove il rilievo quantitativo e qualitativo del pregresso” (Cass. civ., n. 17421/2020 in Fallimento, 2021, 2, 184, nota di FINARDI). Viceversa, è stato dato rilievo anche al momento del rimborso qualora la situazione della società a tale data sia di squilibrio o di inadeguatezza patrimoniale (si veda, tra le altre, Corte d’Appello Brescia n.1372/2022 in Società, 2023, 8-9, 1023).
Il ricorrere di una delle condizioni in esame costituisce fatto impeditivo del diritto del socio alla restituzione del finanziamento concesso alla società, che, in sede giudiziale, è rilevabile dal giudice d’ufficio se oggetto di un’eccezione in senso lato, sempre che la situazione predetta risulti provata ex actis, secondo quanto dedotto e prodotto in giudizio (Cass. civ. n. 12994/2019 in Foro It., 2019).
Più precisamente, come indicato dalla giurisprudenza, “La postergazione derivante dall’anomalia del finanziamento nella situazione di crisi si traduce, anche nel corso della vita della società, in una causa di inesigibilità del credito sino all’avvenuto soddisfacimento di tutti gli altri creditori, ma il socio può pretendere il rimborso anche prima se la società abbia superato la situazione di crisi” (Tribunale Milano, Sez. spec. in materia di imprese, n. 8577/2020 in Giur. It., 2021, 6, 1400, nota di CAGNASSO)
Aumento di capitale versato compensando il credito da rimborso finanziamento soci postergato
La dottrina e la giurisprudenza si sono interrogate sull’operatività della postergazione nell’ambito degli aumenti di capitale ed in particolare sulla possibilità o meno – e nel caso, a quali condizioni – per il socio di compensare il proprio credito da rimborso di finanziamento postergato con il debito verso la società per la sottoscrizione dell’aumento di capitale e relativo versamento.
Non sono mancate pronunce che hanno escluso categoricamente tale possibilità ritenendo che “la compensazione del debito da conferimento con il credito del socio da finanziamento postergato ex lege, costituisce una forma di “restituzione” del prestito contraria alla norma di cui all’art. 2467 c.c.” (Trib. Roma 2017) e pertanto inammissibile.
L’orientamento ad oggi prevalente, invece, ammette tale possibilità. La Cassazione, muovendo dalla ratio legis sopra illustrata, ha infatti statuito che: “Le disposizioni dell’art. 2467 c.c. non operano in caso di aumento di capitale sociale liberato dal socio mediante compensazione con propri precedenti crediti vantati nei confronti della società”, osservando che nel contesto di un aumento di capitale l’apporto del socio ha luogo “attraverso sottoscrizione di capitale di rischio, sicché il problema della postergazione non si pone affatto” (Cass. civ. n. 3946/2018 in Giur. It., 2018, 8-9, 1916, nota di GARESIO).
Nella stessa direzione vanno le massime notarili elaborate dalle competenti commissioni, seppure con alcune differenze circa le condizioni e le modalità di tale compensazione.
In particolare, il Notariato di Milano e del Triveneto, riconosciuta la possibilità di operare la compensazione in esame, distingue tra finanziamenti postergati o meno. Nel secondo caso, la compensazione sarebbe automatica e di legge, essendo il credito da rimborso certo, liquido ed esigibile tanto quanto il debito da versamento del capitale conseguente all’aumento. Nel primo caso, invece, essendo il credito da rimborso del finanziamento soci postergato non esigibile, si rientrerebbe nell’ipotesi di compensazione volontaria ed è quindi necessaria autorizzazione della società. Autorizzazione che, in concreto, potrebbe non essere agevole ottenere in caso di dissidio tra soci e/o tra soci e l’organo amministrativo che spesso si verificano quando la società non naviga in buone acque.
Altre commissioni hanno assunto posizioni più aperte e agevolanti il socio, come quella del Notariato di Firenze, secondo cui “È sempre possibile liberare l’aumento di capitale sottoscritto mediante compensazione con un credito del socio da finanziamento, anche nel caso in cui il termine per il rimborso non sia ancora scaduto. Non osta a tale operazione neppure il fatto che ricorrano le condizioni per la postergazione dei crediti dei soci stabilite dall’art. 2467 c.c., posto che la conversione del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati da tale disposizione. L’assemblea non deve obbligatoriamente deliberare sulla compensabilità del debito da sottoscrizione, se non per escluderla richiedendo la liberazione dell’aumento mediante versamento in denaro”.
12 Aprile 2024
La legittimazione processuale dei fondi comuni d’investimento
Sommario:
I fondi comuni d’investimento sono gestiti dalle società di gestione (SGR).
Quando opera sul mercato – quindi quando acquisisce strumenti finanziari o beni immobili per conto del fondo – la SGR deve intestare tali beni al fondo o a sé stessa?
Quando la SGR agisce in giudizio, deve spendere il nome del fondo?
La natura dei fondi comuni d’investimento
Per rispondere a queste domande bisogna innanzitutto comprendere quale sia la natura dei fondi comuni d’investimento.
Dottrina e giurisprudenza si sono interrogate sulla natura dei fondi comuni d’investimento, che sono disciplinati dal testo unico della finanza (ovvero il Dlgs. n. 58 del 24.2.1998, di seguito TUF).
L’art. 36 del TUF dispone, inter alia:
Il fondo comune di investimento è gestito dalla società di gestione del risparmio che lo ha istituito o dalla società di gestione subentrata nella gestione, in conformità alla legge e al regolamento …
Ciascun fondo comune di investimento, o ciascun comparto di uno stesso fondo, costituisce patrimonio autonomo, distinto a tutti gli effetti dal patrimonio della società di gestione del risparmio e da quello di ciascun partecipante, nonché da ogni altro patrimonio gestito dalla medesima società; delle obbligazioni contratte per conto del fondo, la Sgr risponde esclusivamente con il patrimonio del fondo medesimo. Su tale patrimonio non sono ammesse azioni dei creditori della società di gestione del risparmio o nell’interesse della stessa, né quelle dei creditori del depositario o del sub depositario o nell’interesse degli stessi. Le azioni dei creditori dei singoli investitori sono ammesse soltanto sulle quote di partecipazione dei medesimi. La società di gestione del risparmio non può in alcun caso utilizzare, nell’interesse proprio o di terzi, i beni di pertinenza dei fondi gestiti.
Il disposto del TUF – e delle norme delle leggi speciali che l’hanno preceduto – non chiarisce la natura dei fondi comuni e per questo si sono fronteggiate diverse interpretazioni.
Secondo una prima interpretazione, il fondo comune è assimilabile alla comunione di godimento (art. 2448 c.c.), anche se con tratti differenti. In particolare, i beni posseduti dal fondo sono di proprietà dei partecipanti e non della società, che l’amministra, la quale tuttavia ha il potere di disporne.
Secondo una diversa corrente, il fondo comune avrebbe una soggettività giuridica autonoma, ovvero sarebbe un soggetto terzo rispetto alla società di gestione e ai partecipanti al fondo. Pur non avendo una autonoma personalità giuridica, il fondo comune costituisce un centro di imputazione di rapporti giuridici assimilabile alle associazioni non riconosciute.
Infine, l’interpretazione prevalente ritiene che alla società di gestione spetti la titolarità formale del fondo comune, che costituisce un patrimonio separato ed autonomo, di cui sono beneficiari i partecipanti del fondo.
La soluzione accolta dalla giurisprudenza
Dopo alcune incertezze, la giurisprudenza prevalente segue l’ultima corrente interpretativa sopra illustrata.
Con la sentenza n. 16605 del 15.7.2010, la Corte di Cassazione ha chiarito che “i fondi comuni di investimento, seppur valutati alla stregua di autonomi centri di imputazione giuridica e di patrimoni separati, non costituiscono un autonomo soggetto di diritto, poiché difettando di strumenti che consentano di porsi direttamente in relazione con i terzi (in quanto privi di struttura organizzativa minima di rilevanza esterna), abbisognano a tal fine dell’intervento della società di gestione”.
L’orientamento della giurisprudenza di legittimità presuppone che ogni attività negoziale o processuale posta in essere nell’ interesse del patrimonio separato non può, perciò, che essere espletata in nome del soggetto che di esso è titolare, pur se con l’obbligo di imputarne gli effetti a quello specifico ben distinto patrimonio, con conseguente esclusione della possibilità di intestare i beni al fondo medesimo.
Questo orientamento è stato confermato da un’altra decisione della Suprema Corte del 2019 (Cass. 08/05/2019, n. 12062) e più recentemente dal Tribunale di Milano , Sez. spec. in materia di imprese del 20/11/2021, il quale ha statuito che “la scissione tra titolarità sostanziale e formale dei diritti afferenti ad un fondo comune di investimento comporta che facciano capo alla SGR (come soggetto) i diritti e i rapporti nascenti dalla gestione”.
Può quindi dirsi che la giurisprudenza abbia aderito alla dottrina più autorevole sulla natura dei fondi comuni di investimento, ritenendo che i diritti e gli obblighi possono essere esercitati o adempiuti, come soggetto, solo dalla SGR, a nulla rilevando che questa ne sia investita solo sotto il profilo formale e non sostanziale.
Casi pratici
Le considerazioni che abbiamo illustrato sulla natura dei fondi comuni influenzano le risposte ai quesiti sulla legittimazione ad agire, anche in giudizio, dei fondi stessi e conseguentemente delle SGR che li gestiscono.
In particolare, ad esempio, in caso di acquisto nell’interesse di un fondo immobiliare, l’immobile che ne è oggetto deve essere intestato alla società di gestione e non al fondo.
Inoltre, qualora un fondo sia coinvolto in una controversia giudiziaria, solo alla SGR spetta la legittimazione processuale, sia attiva che passiva, senza che occorra spendere il “nome” o dichiarare di agire “per conto” del fondo in relazione al quale è sorta la controversia.
In altri Paesi, anche a noi vicini come tradizione giuridica, la situazione è diversa.
Per esempio, in Francia, la SGR agisce in nome e per conto del fondo comune, che amministra. Quindi, la SGR deve spendere il nome del fondo, a conferma di una legittimazione ad agire autonoma del fondo stesso.
5 Aprile 2024
Start-up innovative: quando cessa l’esenzione dalle procedure concorsuali?
Nella recente sentenza n. 1587 del 16 gennaio 2024 la Suprema Corte di Cassazione civile ha chiarito quale sia la data da cui cessa l’esenzione automatica dalle procedure concorsuali prevista per le start-up innovative.
Il caso
Il giudizio di Cassazione è stato promosso da una società, costituita il 25.3.2015 e a suo tempo iscritta nella sezione speciale delle start-up innovative del Registro imprese, da cui era stata cancellata in data 13.04.2021, avverso la sentenza di fallimento emessa a suo carico in data 8.4.2021 (e pubblicata il 13.04.2021) e cioè in un momento in cui la società risultava ancora iscritta tra le start-up innovative, pur essendo il termine quinquennale per tale iscrizione scaduto il 25.3.2020.
Normativa applicabile e precedenti giurisprudenziali
La pronuncia in commento ha ripercorso la normativa rilevante e i precedenti giurisprudenziali evidenziando che:
- l’art. 31 del d.l. 179/12 prevede un regime di favore per le start-up innovative esentandole dalle procedure concorsualidiverse da quelle previste dal capo II della legge 27 gennaio 2012 n. 3 (che disciplina i “Procedimenti di composizione della crisi da sovraindebitamento e di liquidazione del patrimonio”) per il periodo coincidente con la permanenza di tale qualifica e così al massimo per un quinquennio;
- l’iscrizione di una società quale start up innovativa nella sezione speciale del Registro delle imprese non preclude la verifica giudiziale dei requisiti medesimi in sede prefallimentare, in quanto la suddetta iscrizione costituisce presupposto necessario ma non sufficiente per la non assoggettabilità a fallimento, a norma dell’art. 31, d.l. cit., essendo necessario anche l’effettivo e concreto possesso dei requisiti di legge per l’attribuzione della qualifica di start up innovativa (cfr. Cass. 2892/2023);
- l’applicazione del regime di favore cessa allo scadere del periodo quinquennale dalla costituzione oppure in data antecedente qualora la start-up innovativa perda uno dei requisiti previsti dalla legge per qualificarsi come tale;
- la start-up innovativa è cancellata dalla sezione speciale del registro imprese all’esito delle formalità amministrative da compiersi entro 60 giorni dallo scadere del periodo quinquennale o comunque dalla perdita dei requisiti.
La questione dibattuta
Nel caso sottoposto alla Corte di Cassazione era dibattuto se la cessazione del beneficio avvenisse all’esito della cancellazione della start-up dalla sezione speciale del registro imprese in seguito alle relative formalità amministrative da compiersi entro il termine di 60 giorni ovvero se fosse automatica alla scadenza del termine quinquennale.
Il principio di Diritto
Nella sentenza in esame è stato chiarito che: “la cessazione del beneficio in questione avviene automaticamente alla scadenzadel termine quinquennale previsto dalla legge – nel caso in esame il 25/03/2020 – senza che rilevi né il termine di sessanta giorni previsto per l’adempimento delle formalità amministrative di cancellazione della start up (che ha già perso il beneficio) dalla sezione speciale del registro imprese, né la data in cui detta cancellazione sia in concreto disposta dall’ufficio stesso, risultando evidente che un aspetto così importante, incidente sullo status delle imprese, non può essere collegato alle contingenze di più o meno solerti adempimenti amministrativi”.
La Suprema Corte di Cassazione ha quindi concluso che non ha alcuna rilevanza la data in cui la start up sia stata effettivamente cancellata dalla sezione speciale del registro delle imprese e ha respinto il ricorso della ex start-up nel frattempo dichiarata fallita.
Sempre sulla scorta della assoluta rilevanza riconosciuta alla sostanziale sussistenza o meno dei requisiti per essere qualificata come start-up innovativa, tra cui il periodo temporale di 5 anni dalla costituzione, è stato altresì precisato che “le proroghe dei termini processuali e procedimentali disposte con la decretazione d’urgenza nel periodo della pandemia da Covid-19 nulla hanno a che vedere con la scadenza di un termine, integrante un requisito sostanziale, da cui deriva la cessazione di un beneficio, senza richiedere alcun adempimento a carico del beneficiato”.
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29 Marzo 2024
Inadempimento del preliminare di compravendita immobiliare: risarcimento danni o richiesta del doppio della caparra?
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 5854 del 5 marzo 2024 si è pronunciata in merito alle conseguenze, sul piano risarcitorio, della domanda di risoluzione per inadempimento di un contratto preliminare di compravendita immobiliare.
I giudici di legittimità – dopo aver qualificato l’azione promossa quale domanda di risoluzione del contratto per inadempimento – hanno riconosciuto il diritto del promissario acquirente al risarcimento dei danni, con esclusione della restituzione del doppio della caparra confirmatoria, in ragione dell’alternatività tra i due rimedi.
Il caso e la decisione di merito
Una società, promittente venditrice di un’unità immobiliare, veniva citata in giudizio dalla promissaria acquirente lamentando diversi inadempimenti contrattuali, a fronte dei quali, la parte attrice chiedeva la condanna della convenuta alla restituzione degli importi già versati a titolo di anticipi, al risarcimento del danno per i maggiori interessi corrisposti ad un istituto di credito sul contratto di finanziamento e al pagamento del doppio della caparra confirmatoria versata.
All’esito dei giudizi di merito, la Corte di Appello dichiarava la risoluzione del contratto preliminare per inadempimento della promittente alienante e la condannava a restituire l’anticipo sul prezzo di compravendita dell’immobile, i maggiori interessi pagati sul contratto di finanziamento ed il doppio della caparra confirmatoria versata all’atto di stipula del preliminare.
Il giudizio della Cassazione
La promittente venditrice, soccombente in appello, presentava ricorso in Cassazione lamentando la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., per avere la Corte territoriale accolto la domanda di risoluzione del contratto preliminare e disposto, per l’effetto, la condanna al risarcimento dei danni, oltre al pagamento del doppio della caparra confirmatoria, trattandosi di due istituti alternativi e non cumulabili.
La Suprema Corte ha accolto il ricorso, sviluppando il proprio iter motivazionale a partire dalla qualificazione della domanda proposta in giudizio da parte dell’attore quale domanda di recesso ovvero di risoluzione per inadempimento del contratto.
La prima – a prescindere dalla sua qualifica formale – è ravvisabile ogni qualvolta sia manifesta la volontà di richiedere la condanna della controparte alla sola restituzione del doppio della caparra, quale unica ed esaustiva conseguenza risarcitoria dell’inadempimento, avvalendosi della sua funzione di liquidazione convenzionale del danno a favore della parte non inadempiente ex art. 1385 c.2 c.c..
Per converso, deve qualificarsi come domanda di risoluzione giudiziale ex art. 1453 c.c., la richiesta da parte dell’attore di risoluzione del contratto, oltre al pagamento del doppio della caparra ed al ristoro degli ulteriori danni. Il risarcimento del danno, in tal caso, è regolato dalle norme generali e, come tale, rimesso alla determinazione dell’autorità giudiziaria e subordinato alla dimostrazione dell’an e del quantum debeatur, restando esclusa la possibilità per la parte adempiente di pretendere anche il pagamento del doppio della caparra.
Nel caso di specie, la richiesta formulata dal promissario acquirente nei termini di domanda dichiarativa di risoluzione, con la pretesa di ricevere il doppio della caparra e il risarcimento dell’ulteriore danno, comporta la sua qualificazione alla stregua di domanda costituiva di risoluzione giudiziale., da cui consegue l’inibizione del riconoscimento del doppio della caparra.
Principio di diritto
A conclusione delle sopra riassunte argomentazioni la Suprema Corte ha affermato il seguente principio di diritto “A fronte della proposizione e dell’accoglimento della domanda di risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, con il conseguente risarcimento dei danni, non può essere riconosciuta – in aggiunta – la restituzione del doppio della caparra confirmatoria, indipendentemente dalla prova del danno“.
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18 Marzo 2024
La banca deve risarcire i clienti vittime di phishing se non prova di aver adottato misure preventive idonee
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 3780/2024 ha confermato il principio secondo il quale le banche sono tenute a risarcire i correntisti che hanno subito una frode informatica, come il phishing, in quanto ciò rientra nel proprio rischio d’impresa, a meno che non provino di aver adottato misure idonee a prevenire tali attività fraudolente.
Correntista frodato via e-mail
Il caso ha coinvolto un correntista che aveva ricevuto un’e-mail proveniente in apparenza da Poste Italiane SpA. La comunicazione lo invitava ad accedere al proprio conto attraverso un link, e ad inserire le proprie credenziali per cambiare la password. Dopo aver eseguito tali istruzioni, la vittima aveva subito un addebito sul suo conto di €2.900.
Il cliente aveva quindi inviato a Poste Italiane SpA una richiesta di rimborso di quanto addebitato che era stata respinta, e si era poi rivolto al Giudice di Pace di Paola che aveva, a sua volta, rigettato la domanda.
In appello, il Tribunale di Paola aveva accolto il gravame, condannando Poste Italiane SpA al risarcimento del danno pari alla somma attualizzata sottratta dall’operazione illecita, ritenendo che il prestatore di servizi dovesse rispondere, ai sensi del Dlgs. n. 196 del 2003, noto come il Codice della Privacy, degli effetti dannosi conseguenti all’esercizio di un’attività pericolosa implicante il trattamento di dati personali.
L’ente non era riuscito a dimostrare la riconducibilità dell’operazione al cliente, rientrando l’uso dei codici di accesso al sistema da parte di terzi nel rischio professionale del prestatore di servizi di pagamento ed essendo questa condotta prevedibile ed evitabile con appropriate misure tecniche.
In risposta alla decisione del Tribunale, Poste Italiane SpA aveva presentato un ricorso in Cassazione che ha rigettato il ricorso ritenendolo infondato e confermando la sentenza d’appello.
La banca deve tenere la diligenza “dell’accorto banchiere”
Secondo la giurisprudenza della Suprema Corte, il livello di diligenza tecnica richiesto agli istituti bancari deve necessariamente tenere conto dei rischi tipici della professione bancaria secondo il parametro dell’accorto banchiere, come già affermato nella sentenza della Cassazione n. 806/2016.
Il rispetto del suddetto standard di diligenza della banca va verificato rispetto a tutte le operazioni riconducibili nella sua sfera di controllo tecnico, sulla base anche di una valutazione di prevedibilità ed evitabilità.
Essendo la responsabilità della banca di natura contrattuale, una volta provato il suo inadempimento, si presume l’esistenza del nesso causale tra tale inadempimento e il danno subito dal correntista. Presunzione che può essere vinta solo se l’istituto di credito riesce a dimostrare che ci sia stata colpa grave da parte del cliente. La giurisprudenza ormai consolidata, infatti, considera il rischio di sottrazione dei codici del correntista attraverso tecniche fraudolente come intrinseco nel rischio d’impresa e quindi gravante sulle banche, salvo che sopraggiungano circostanze non prevedibili ed evitabili con la diligenza tecnica richiesta a queste ultime.
Nel caso di specie, la Suprema Corte, confermando la pronuncia del Tribunale, ha ritenuto che sarebbe stato onere di Poste Italiane SpA dover provare di aver adottato soluzioni idonee a prevenire o ridurre l’uso fraudolento dei sistemi elettronici di pagamento, come ad esempio l’autenticazione a due fattori o il monitoraggio delle transazioni sospette. In assenza di tale prova, la Cassazione ha ritenuto fondata la decisione d’appello di imputare alla banca il rischio professionale derivante dalla possibilità che terzi accedano ai profili dei clienti con attività di phishing.
Gli istituti bancari devono, quindi, assumersi la responsabilità di proteggere i propri clienti dalle frodi informatiche adottando misure tecnologiche adeguate a prevenire tali attività fraudolente.
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