27 Luglio 2023
INAD: implicazioni pratiche per le notifiche e funzionamento
A partire dal 6 luglio 2023, i cittadini hanno l’opportunità di registrare il proprio domicilio digitale nell’Indice Nazionale dei Domicili Digitali (INAD), fornendo un indirizzo PEC precedentemente attivato, per ricevere tutte le comunicazioni ufficiali dalla Pubblica Amministrazione e la notifica degli atti giudiziari. Gli indirizzi di posta elettronica certificata dei professionisti già presenti su INI-PEC sono automaticamente importati all’interno dell’INAD.
L’impatto dell’attivazione dell’INAD sulla notifica degli atti giudiziari
L’attivazione dell’INAD comporta rilevanti conseguenze nell’ambito delle notifiche degli atti giudiziari, in quanto, ai sensi degli artt. 3-bis, Legge n. 53/94 e 16-ter, comma 1, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, gli avvocati potranno procedere con la notifica degli atti a mezzo PEC anche nei confronti dei soggetti iscritti nel pubblico elenco in commento.
Peraltro, considerando anche le modifiche apportate alla disciplina delle notificazioni degli atti giudiziari dalla riforma Cartabia e segnatamente all’art. 137 c.p.c. ultimo comma, emerge che la notifica PEC più che una facoltà per l’avvocato notificante si atteggia quale obbligo. Invero l’Ufficiale Giudiziario può essere incaricato della notifica esclusivamente a fronte di una dichiarazione del difensore che la notifica via PEC “non è possibile o non ha avuto esito positivo per cause non imputabili al destinatario”. Il perimetro di attività degli Ufficiali Giudiziari in materia di notifica ne esce, quindi, ulteriormente circoscritto mentre si amplia quello degli avvocati, con relativi oneri di consultazione e verifica.
Un secondo profilo di impatto dell’attivazione dell’INAD sulle notifiche degli atti giudiziari attiene alle notificazioni nei confronti di professionisti (che erano già dotati di PEC obbligatoria collegata all’iscrizione al proprio albo professionale) di atti afferenti questioni private o comunque estranee allo svolgimento della loro attività professionale. Infatti, l’importazione degli indirizzi PEC dei professionisti sull’INAD consente di ritenere superato ogni dubbio in ordine alla legittimità di una tale notificazione, che invece prima sussisteva stante l’intima connessione tra la PEC obbligatoriamente richiesta dai rispettivi ordini e l’attività professionale svolta.
Procedure di registrazione e requisiti per l’iscrizione
Può registrare il proprio domicilio digitale chi ha compiuto il diciottesimo anno di età, i professionisti non organizzati in ordini, albi o collegi secondo la legge n. 4/2013 e gli enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione nell‘Indice Nazionale degli Indirizzi PEC delle imprese e dei professionisti (INI-PEC).
Per registrarsi a INAD, occorre accedere al sito ufficiale e seguire le istruzioni. Il sistema richiederà di fornire un indirizzo PEC attivo e di completare il processo di autenticazione utilizzando SPID, CIE o CNS.
Una volta completata la registrazione, il domicilio digitale sarà attivo e pronto per ricevere comunicazioni ufficiali. L’accesso a INAD avviene tramite il sito https://domiciliodigitale.gov.it, utilizzando SPID, CIE o CNS. Una volta autenticati, sarà necessario inserire il proprio recapito certificato, ovvero l’indirizzo PEC scelto come domicilio digitale.
Chi può consultarlo
La consultazione di INAD è aperta a tutti e non richiede autenticazione. È possibile accedere inserendo uno dei seguenti parametri di ricerca: codice fiscale, cognome, nome e provincia di residenza, denominazione dell’ente e provincia in cui è stabilita la sede legale o l’indirizzo del domicilio digitale (attualmente è attiva esclusivamente la ricerca per codice fiscale).
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14 Luglio 2023
Corte di Cassazione: propensione al rischio dell’investitore e obblighi informativi dell’intermediario finanziario
La generica propensione al rischio dell’investitore non è sufficiente a superare la presunzione legale di sussistenza del nesso causale tra violazione degli obblighi informativi da parte dell’intermediario finanziario e danno subito dall’investitore.
La Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 18293 pubblicata il 27/6/2023, è tornata a pronunziarsi sull’onere della prova circa il nesso causale tra violazione degli obblighi informativi da parte dell’intermediario finanziario e danno subito dall’investitore, indagando in particolare quali circostanze siano idonee ad integrare la prova contraria che consente di vincere la presunzione legale di sussistenza di tale nesso.
Il caso sottoposto ai giudici di legittimità afferiva a due operazioni di acquisto di bond argentini concluse nel 1996 e nel 1998, in relazione alle quali l’investitore domandava il risarcimento dei danni subiti per inadempimento dell’intermediario agli obblighi informativi di legge, che gli ha impedito di ponderare adeguatamente il rischio dell’investimento effettuato.
La sentenza impugnata
La Corte d’Appello ha respinto la domanda risarcitoria avanzata dall’investitore nei confronti dell’istituto di credito – pur riconoscendo la violazione degli obblighi informativi imposti dalla legge da parte di quest’ultimo – affermando che anche se l’investitore avesse conosciuto i rischi associati ai prodotti finanziari oggetto di causa (definiti moderati, o poco alti), a fronte della profilazione del cliente come investitore esperto, con alta propensione al rischio, non sarebbe stato dissuaso dall’acquisto dei bond.
Il ricorso in Cassazione
Nel ricorso per Cassazione l’investitore, tra i diversi motivi di impugnazione articolati, ha lamentato che la Corte d’Appello, una volta accertato l’inadempimento dell’intermediario finanziario agli obblighi informativi, avrebbe dovuto considerare in re ipsa il nesso causale tra la condotta in violazione di legge ed il danno subito dall’appellante.
La decisione della Suprema Corte
La Corte di legittimità ha ritenuto fondato il suddetto motivo di ricorso richiamando l’evoluzione giurisprudenziale relativa al nesso causale tra l’inadempimento di obblighi informativi da parte dell’intermediario ed il pregiudizio patrimoniale subito dall’investitore, che vede come punto di approdo la decisione della Cass. 17/4/2020 n. 7905.
Il ragionamento della Suprema Corte muove dal rilievo per cui l’intermediario finanziario ha l’obbligo di fornire all’investitore un’informazione adeguata in concreto, ossia idonea a soddisfare le esigenze richieste dalle peculiarità del caso di specie. Il sistema normativo, infatti, assegna all’obbligo informativo gravante sull’intermediario una funzione precisa: quella di riequilibrare l’asimmetria strutturale del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell’investitore al fine di consentirgli una scelta di investimento realmente consapevole.
E’ stato altresì evidenziato che una presunzione legale può sorgere implicitamente non solo da una disposizione di legge ma anche da un complesso sistematico di disposizioni che la implichino in modo logicamente e giuridicamente necessario.
Dall’accertamento dell’inadempimento agli obblighi informativi deriva, quindi, una vera e propria presunzione di legge circa la sussistenza del legame causale tra di esso ed il danno patito dall’investitore (da quantificarsi in misura pari alla differenza tra il valore dei titoli al momento dell’acquisto e quello al momento della domanda risarcitoria).
La suddetta presunzione ha carattere relativo (iuris tantum), superabile, pertanto, se fornita prova contraria, gravante sull’intermediario finanziario. Tale prova consiste nella dimostrazione che il pregiudizio occorso all’investitore si sarebbe ugualmente verificato anche se avesse ricevuto le informazioni omesse. La pronuncia in esame ha il pregio di chiarire, anche sulla scorta di altre precedenti, che “quanto alla prova contraria, di cui è gravato l’intermediario, si è precisato che essa non possa consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell’investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l’investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell’ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati” (Cass. n. 18293/2023).
A fronte dei principi che precedono i giudici di legittimità hanno, quindi, censurato il ragionamento della Corte di merito – che aveva fondato il superamento della presunzione legale di sussistenza del nesso causale sulla alta propensione al rischio dell’investitore tout court – ed ha cassato la sentenza impugnata con rinvio della causa alla Corte di Appello in diversa composizione.
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30 Giugno 2023
DDL Capitali: azione risarcitoria diretta dell’investitore nei confronti delle autorità di vigilanza
Il disegno di legge n. 674, denominato “Interventi a sostegno della competitività dei capitali”(c.d. ddl Capitali) è stato comunicato alla presidenza del Senato il 21/4/2023, ed è attualmente all’esame della 6° commissione. Lo scorso 20 giugno, la CONSOB ha espresso una valutazione positiva sul disegno di legge, auspicando che alcune disposizioni possano essere utilmente perfezionate nel corso dell’iter parlamentare.
L’impianto del disegno di legge
Il citato disegno di legge prevede misure finalizzate a migliorare la competitività del mercato dei capitali, semplificando e razionalizzando il quadro normativo e regolamentare di settore, in modo da rendere più efficiente l’accesso e la permanenza delle imprese sui mercati di capitali, senza però sacrificare i presidi a tutela dell’integrità dei mercati e degli investitori.
Le modifiche introdotte con riferimento al risarcimento del danno
In particolare, sotto tale ultimo profilo, l’art. 17 del ddl Capitali interviene sull’art. 24 della legge 28/12/2005 n. 262, introducendo un nuovo comma 6-ter, il quale prevede che chiunque abbia subito un danno per effetto di un atto o di un comportamento posto in essere da un soggetto vigilato da Banca d’Italia, Consob, Ivass o AGCM possa agire contro l’autorità di vigilanza per ottenere il risarcimento dei danni che siano conseguenza immediata e diretta della violazione di leggi e di regolamenti sulla cui osservanza è mancata la vigilanza dell’Autorità stessa.
Si tratta di una novità normativa – che se approvata nei termini e con i contenuti di cui al progetto di legge al vaglio del Senato – avrà un rilevante impatto di sistema (per quanto recepisca un orientamento giurisprudenziale già esistente), rafforzando gli strumenti di tutela in favore degli investitori ed imponendo alle autorità di vigilanza un ripensamento delle proprie modalità di controllo, in considerazione della responsabilità risarcitoria diretta cui saranno assoggettate.
22 Giugno 2023
Clausole abusive e tutela del consumatore
I PRINCIPI STABILITI DALLE SEZIONI UNITE DELLA CASSAZIONE CON LA SENTENZA N. 9479/2023 TROVANO APPLICAZIONE CONCRETA NELLE CORTI DI MERITO: IL CASO DELLA CIRCOLARE DEL TRIBUNALE DI MILANO.
La circolare del 19 maggio 2023 emessa dal Presidente della terza sezione civile del Tribunale di Milano traduce in indicazioni pratiche, rivolte agli ausiliari del giudice nelle procedure esecutive immobiliari, i principi di diritto contenuti nella sentenza n. 9479/2023 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite circa i poteri e doveri del giudice nelle diverse fasi del procedimento di recupero dei crediti che originano da ricorsi per decreto ingiuntivo. La finalità è quella di garantire una maggiore tutela al consumatore anche tramite la verifica d’ufficio della vessatorietà delle clausole contrattuali, nel solco tracciato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia UE.
Le decisioni della Corte di Giustizia UE
Lo scorso 17 maggio 2022, infatti, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso quattro sentenze concernenti l’interpretazione della Direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE alla luce dei singoli sistemi processuali degli Stati membri. La sentenza nelle cause riunite C-693/19, SPV Project 1503, e C831/19, Banco di Desio e della Brianza è stata pronunciata a fronte di un rinvio pregiudiziale del Tribunale di Milano.
La vicenda oggetto della sentenza n. 9479/2023 della Corte di Cassazione a Sezioni Unite
La sentenza della Cassazione n. 9479 del 2023 ha affrontato il caso di una consumatrice che aveva prestato una fideiussione in favore di una società ed a beneficio di una banca. Dopo che il debitore principale è risultato inadempiente, la banca ha avviato una procedura esecutiva nei confronti della garante sulla base di un decreto ingiuntivo, al quale la consumatrice non si è opposta. All’esito della procedura esecutiva, il giudice ha dichiarato esecutivo il progetto di distribuzione del ricavato della vendita dell’immobile. La consumatrice ha proposto opposizione, ai sensi dell’art.617 c.p.c., adducendo la nullità del decreto ingiuntivo in quanto emesso da un giudice territorialmente incompetente, sulla base di una clausola del contratto di fideiussione illegittimamente derogatrice del foro del consumatore e, quindi, abusiva. L’opposizione è stata rigettata in quanto la consumatrice non si era precedentemente opposta al decreto ingiuntivo.
In Cassazione la consumatrice ha dedotto la violazione o l’errata interpretazione della Direttiva 93/13 e dell’art. 19 del TUE, con riferimento al principio di effettività della tutela del consumatore, rilevando che entra in contrasto con tale principio, l’impossibilità, a fonte di decreto ingiuntivo non opposto, di un secondo controllo d’ufficio sull’abusività delle clausole contrattuali, nella fase dell’esecuzione, e l’impossibilità di una successiva tutela, una volta decorso il termine per proporre opposizione nei confronti del decreto ingiuntivo.
Nonostante la consumatrice abbia rinunciato al ricorso in Cassazione, prima della celebrazione della pubblica udienza, il pubblico ministero ha sollecitato la Corte ad enunciare alcuni principi di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c. trattandosi di questione di particolare rilevanza. Le Sezioni Unite sono state, quindi, chiamate a fornire un’interpretazione della Direttiva 93/13/CEE e, in particolare, a chiarire in che modo le norme che tutelano il consumatore in caso di clausole abusive presenti in un contratto concluso con un professionista, devono essere applicate nel processo italiano e se si possa superare la limitazione rappresentata dal giudicato di un decreto ingiuntivo non opposto.
I principi enunciati dalla Cassazione
La Corte di Cassazione ha dato attuazione alla pronuncia della Corte di Giustizia dell’UE. Il principio di diritto formulato, molto analitico ed articolato, ha stabilito che il Giudice del procedimento monitorio è tenuto ad effettuare d’ufficio il controllo in ordine alla eventuale presenza di clausole abusive nei contratti stipulati tra professionisti e consumatori. La Corte ha rilevato che il consumatore è in una posizione di svantaggio rispetto al professionista e può facilmente trovarsi a stipulare contratti con clausole abusive senza rendersene conto, non opponendosi al decreto ingiuntivo e perdendo così la possibilità di far valere i propri diritti.
Procedimento Monitorio
Il giudice deve tutelare il consumatore in tutte le fasi, fin dal procedimento monitorio, controllando l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto stipulato tra professionista e consumatore. Qualora accerti l’abusività di talune clausole, il giudice ne trarrà le conseguenze in ordine al rigetto od all’accoglimento parziale del ricorso.
Diversamente, qualora dal suddetto accertamento non emergessero profili di vessatorietà a carico del consumatore, il giudice pronuncerà decreto motivato, ai sensi dell’art. 641 c.p.c., nel quale dovrà dare atto dell’accertamento effettuato, con l’avvertimento che in mancanza di opposizione il debitore – consumatore non potrà più far valere l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto.
Processo esecutivo
Qualora, invece, il giudice del decreto ingiuntivo abbia omesso le verifiche sopra descritte in ordine alla vessatorietà delle clausole contrattuali, la relativa delibazione dovrà essere effettuata dal giudice dell’esecuzione con termine sino alla vendita od all’assegnazione del bene o del credito. Se tale controllo sortisse esito positivo il giudice informa le parti e avvisa il debitore che entro 40 giorni può proporre opposizione al decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 650 c.p.c. per fare accertare solo ed esclusivamente l’eventuale abusività delle clausole, con effetti sul titolo esecutivo. Fino alle determinazioni del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo ai sensi dell’art. 649 c.p.c., il giudice dell’esecuzione non può procedere alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito.
Se, invece, il debitore propone opposizione all’esecuzione ex art. 615, primo comma, c.p.c., per far valere l’abusività delle clausole del contratto, il giudice la riqualifica in termini di opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e rimette la decisione al giudice di quest’ultima.
Qualora il debitore abbia proposto un’opposizione esecutiva per far valere l’abusività di una clausola, il giudice concede il termine di 40 giorni per proporre l’opposizione tardiva e non procede alla vendita o all’assegnazione del bene o del credito sino alle determinazioni del giudice dell’opposizione tardiva sull’istanza ex art. 649 c.p.c. del debitore consumatore.
Fase di cognizione
Infine, il giudice dell’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c., può sospendere, ex art. 649 c.p.c., l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, in tutto o in parte, a seconda degli effetti che l’accertamento sull’abusività delle clausole potrebbe comportare sul titolo giudiziale.
La circolare del Tribunale di Milano
La Circolare del Tribunale di Milano del 19 maggio 2023 fa propri i principi enunciati dalla Cassazione ed in relazione ai procedimenti di esecuzione immobiliare chiede ai Delegati alla Vendita di eseguire un’analisi preliminare che consideri i seguenti elementi nelle procedure da loro seguite:
- Verificare che il debitore sia una persona fisica;
- Accertarsi che il titolo esecutivo su cui si basa il credito del creditore procedente o di un creditore intervenuto sia un decreto ingiuntivo;
- Escludere i casi in cui l’immobile sia già stato aggiudicato o trasferito;
- Escludere i decreti ingiuntivi relativi alle spese condominiali;
- Depositare una nota nel fascicolo telematico con la dicitura “nota da porre in visione al g.e. – eventuali clausole abusive – asta fissata in data xx.xx.2023” o formula equivalente, specificando l’oggetto del decreto ingiuntivo (ad es. contratto di finanziamento, scoperto di conto corrente, ecc.).
Per le procedure in cui è già stata fissata l’asta è richiesto di effettuare la segnalazione senza indugio, evidenziando l’urgenza tramite “campanello” o comunque entro il 31 maggio 2023.
Per le procedure esecutive in cui la vendita non è ancora stata fissata, la segnalazione dovrà essere effettuata a partire dal 1° luglio 2023, prima dell’emanazione dell’avviso di vendita. Successivamente, il delegato dovrà attendere le istruzioni del giudice dell’esecuzione.
Comunicazione del custode nelle udienze
Nel caso di procedure in cui è stata fissata o rinviata l’udienza ex art. 569 cpc, il custode effettuerà la comunicazione nel rendiconto da depositare, ove possibile, sette giorni prima dell’udienza, acquisendo il certificato di residenza storico del debitore, il contratto da cui scaturisce il credito riconosciuto nel decreto ingiuntivo e la visura camerale storica della società garantita (se l’esecutato è fideiussore). Tali documenti saranno acquisiti dal creditore procedente.
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8 Giugno 2023
La lesione della privacy non comporta automaticamente il diritto al risarcimento del danno
Un trattamento illecito dei dati personali, anche qualora accertato dal Garante per la protezione dei dati personali non può comportare automaticamente alla persona lesa il riconoscimento del diritto ad ottenere un risarcimento del danno. Lo ha sostanzialmente statuito la Cassazione, con l’ordinanza numero 2685 del 30 gennaio 2023.
Il caso
Un presentatore noto a livello locale si era rivolto al Garante per la protezione dei dati personali dopo che il suo volto era stato mostrato in una nota trasmissione televisiva, come persona che avrebbe attuato un tentativo di truffa nei confronti di due sindaci.
Il Garante aveva accertato che, pur risultando la vicenda descritta nella trasmissione di interesse pubblico, la diffusione dell’immagine della persona non era giustificata ed era in violazione, oltre che della normativa sulla protezione dei dati personali, anche degli articoli 10 del codice civile e 96 e 97 della Legge 633/41 (Legge sul Diritto d’Autore).
Sulla base di tale provvedimento, il presentatore si rivolgeva al tribunale competente per richiedere un ingente risarcimento. A seguito di un lungo iter processuale, la vicenda approdava infine in Cassazione.
La Cassazione
La Suprema Corte, confermando la sua precedente giurisprudenza, all’interno della complessa motivazione, ha specificato che la correlazione tra illecito trattamento dei dati personali e risarcimento del danno non si verifica in via automatica in quanto “il danno non patrimoniale risarcibile non è in re ipsa e va pertanto individuato non nella lesione del diritto inviolabile ma nelle conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di tale danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e prova e la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato”.
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30 Maggio 2023
Laurent Scarna ha assistito un gruppo societario specializzato nel freight forwarding
Il Partner Avvocato Laurent Scarna ha assistito un gruppo societario con casa madre francese, specializzato nel freight forwarding marittimo, aereo e multimodal, già presente in Africa, Medioriente, Asia e Stati Uniti, nell’ambito della costituzione della controllata italiana, con sede a Genova, e dell’avvio dell’attività. Una specificità: trattandosi di attività regolamentata con precisi requisiti previsti per i soggetti responsabili, nel caso di specie persone fisiche stabilite all’estero, l’assistenza legale ha ricompreso anche la preparazione e la gestione delle pratiche di riconoscimento in Italia dei titoli di studio stranieri presso il Ministero dell’Università e della Ricerca per il conseguimento di tali requisiti legali.
3 Maggio 2023
Violazione obblighi informativi bancari: presunzione di risarcibilità del danno al cliente
La terza sezione della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 7288 del 13 marzo 2023, ha ribadito che in capo all’intermediario finanziario grava l’onere di dimostrare di aver adempiuto a tutti gli obblighi informativi previsti dalla legge e dai regolamenti di settore e ha affermato che in mancanza di tale prova – a prescindere dall’adeguatezza di rischio degli investimenti – vige una presunzione di risarcibilità del danno lamentato dal cliente.
La fattispecie oggetto del giudizio
L’erede dell’investitrice danneggiata aveva adito l’autorità giudiziaria affinché accertasse la violazione da parte dell’intermediario finanziario delle disposizioni vigenti in tema di valutazione di adeguatezza degli investimenti rispetto ai profili di rischio dell’investitore e la violazione dei doveri informativi di legge. L’attore, quindi, domandava la condanna della banca alla restituzione della somma inizialmente investita e poi persa dalla de cuius.
Il Tribunale rigettava la domanda attorea, ritenendo che la propensione al rischio della cliente fosse adeguato all’investimento effettuato.
La Corte d’appello confermava la sentenza di primo grado per non aver l’appellante riferito di alcuna specifica omissione riguardo al rapporto di investimento oggetto del giudizio e per non aver, in ogni caso, impugnato l’autonoma ratio decidendi circa l’adeguatezza degli investimenti effettuati rispetto alla sua propensione al rischio. Inoltre, la Corte di merito riteneva che l’appellante non avesse impugnato la sentenza di primo grado nella parte in cui il Tribunale aveva rigettato la domanda risarcitoria per difetto di allegazione e prova sul nesso causale tra la violazione degli obblighi informativi e il danno, né la ricorrente aveva dimostrato che, se fosse stata edotta della pericolosità dell’acquisto, si sarebbe astenuta dal farlo.
Avverso la suddetta sentenza di secondo grado veniva proposto ricorso in Cassazione affidandosi a diverse censure tra le quali, in particolare, il preteso inadempimento, da parte dell’intermediario finanziario, ai propri obblighi informativi.
La decisione della Cassazione
La Suprema Corte ha accolto il ricorso dell’investitore cassando la sentenza d’appello, confermando quanto già statuito dalla giurisprudenza di legittimità sul punto e cioè che “In tema di intermediazione finanziaria, grava sull’intermediario, ai sensi del D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23, comma 6, provare di aver agito con la specifica diligenza richiesta e, dunque, dimostrare di avere correttamente informato i clienti sulla natura, i rischi e le implicazioni della specifica operazione relativa ai titoli mobiliari oggetto di investimento, risultando irrilevante, al fine di andare esente da responsabilità, una valutazione di adeguatezza dell’operazione, posto che l’inosservanza dei doveri informativi da parte dell’intermediario è fattore di disorientamento dell’investitore, che condiziona le sue scelte di investimento (Cass., 1, n. 19891 del 20/6/2022)”. Non poteva quindi essere condivisa la posizione della Corte di merito secondo cui, in sostanza, non avendo l’omissione degli obblighi informativi comportato una variazione del rischio, sarebbe mancata la prova del nesso causale tra l’omissione di più pregnanti obblighi informativi e il danno lamentato perché in contrasto con i principi sopra richiamati.
In particolare, la Cassazione ha affermato che l’omissione degli obblighi informativi prescritti dalla legge e dai regolamenti di settore, il cui onere probatorio grava in capo all’intermediario finanziario, determina una presunzione di danno risarcibile in capo alla banca.
In conclusione, secondo i giudici di legittimità, la Corte di merito non avrebbe dovuto limitarsi a considerare l’astratta adeguatezza degli investimenti proposti al livello di rischio dell’investitore, ma avrebbe dovuto valutare se l’istituto di credito aveva adeguatamente informato il cliente soddisfacendo tutti gli obblighi di legge e dei regolamenti di settore. In assenza di tale prova la Corte d’Appello avrebbe dovuto presumere la sussistenza di un danno risarcibile in capo al cliente.
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21 Aprile 2023
Riforma Cartabia e periodo transitorio: quando si applica?
In un recentissimo decreto del 13 aprile 2023, il Tribunale di Verona, sulla base della ricostruzione delle nozioni di giudizi instaurati e di giudizi pendenti nel regime transitorio della riforma Cartabia (art. 35 del d. lgs. 149/2022), ha chiarito che il nuovo rito di primo grado non si applica in un giudizio introdotto con atto di citazione presentato in notifica il 28 febbraio e ricevuto dal convenuto il 2 marzo che resta quindi soggetto al rito previgente.
Cosa prevede la norma transitoria
La norma transitoria prevede, infatti, che: “Le disposizioni del presente decreto, salvo che non sia diversamente disposto, hanno effetto a decorrere dal 28 febbraio 2023 e si applicano ai procedimenti instaurati successivamente a tale data. Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 si applicano le disposizioni anteriormente vigenti.”
Si sottopongono, quindi, ad un regime diverso i giudizi “instaurati” a decorrere dal primo marzo 2023 e quelli “pendenti” alla data del 28 febbraio 2023, stabilendo che ai primi si applichino le nuove disposizioni.
Instaurazione e pendenza del giudizio: chiarimenti del Tribunale di Verona
Il Codice di procedura civile disciplina la nozione di pendenza del giudizio (art. 39 ultimo comma c.p.c.), mentre la nozione di instaurazione non è rinvenibile in alcuna norma del codice di rito.
Il Giudice di Verona, ha osservato che “instaurazione e pendenza (del giudizio) non possono essere dei sinonimi o, per meglio dire, si tratta di espressioni che non coincidono esattamente tra loro perché altrimenti sarebbe impossibile individuare il discrimine per l’applicazione delle nuove norme”, ha considerato che “la nozione di pendenza allude a processi che possono trovarsi in fasi processuali diverse, da quella iniziale, a quella di trattazione, a quella decisionale” mentre “la nozione di instaurazione si riferisce invece ad un processo che è ancora nella fase di instaurazione del contraddittorio ed è quindi più circoscritta di quella di pendenza”.
Secondo l’interpretazione offerta nella sentenza in commento, il legislatore, utilizzando l’espressione “instaurazione”, ha volutamente stabilito che, mentre per i giudizi pendenti (meglio sarebbe stato dire “già pendenti”) alla data del 28 febbraio, e in qualunque fase essi si trovassero, si applicano le norme previgenti, per quelli introdotti dal primo marzo, ossia per quelli per i quali, a partire da quella data sia inviato l’atto di citazione per la notifica, se soggetti al giudizio ordinario, o depositato il ricorso, se soggetti al rito semplificato, vengono in rilievo le nuove norme.
Muovendo da tali presupposti, il Giudice è giunto a concludere che essendo stato l’atto di citazione inviato per la notifica il 28 febbraio il giudizio soggiace alla disciplina previgente.
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14 Aprile 2023
Illegittima segnalazione alla Centrale Rischi e danno all’immagine e alla reputazione
In caso di illegittima segnalazione alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, il soggetto danneggiato può agire per ottenere il risarcimento del danno all’immagine e alla reputazione. Tale danno non sussiste però “in re ipsa”, ma deve essere adeguatamente provato dal danneggiato.
Lo ha confermato in una recente sentenza, la Cassazione civile, sez. I, 06 marzo 2023, n. 6589, sottolineando che il danno all’immagine e alla reputazione va allegato specificamente e dimostrato da chi ne richiede il risarcimento.
Danno all’immagine e alla reputazione
I diritti alla reputazione personale, all’immagine e all’onore sono riconosciuti quali diritti fondamentali della persona garantiti dalla Costituzione. La lesione di tali diritti, derivante dall’illecita segnalazione di un soggetto alla Centrale Rischi della Banca d’Italia, comporta a carico del responsabile, l’obbligo di risarcire anche il danno non patrimoniale subito dal danneggiato. Tale danno consiste nel vedersi ingiustamente indicato come insolvente, configurando una lesione all’immagine sociale della persona danneggiata. Tuttavia, si tratta di un danno suscettibile di essere riconosciuto e risarcito solo se adeguatamente dimostrato in giudizio, senza presunzioni o automatismi che esonerino in tutto o in parte il danneggiato dall’onere della prova.
Il caso di specie
Nella fattispecie oggetto della pronuncia in commento, la Suprema Corte ha confermato la sentenza di merito che, pur a fronte dell’erronea segnalazione circa la qualità di terzo datore di ipoteca, ha respinto la richiesta risarcitoria avanzata dall’attore.
A sostegno della decisione di rigetto della domanda di risarcimento del danno anche di carattere non patrimoniale, la Cassazione ha condiviso la motivazione della Corte territoriale, secondo la quale l’attore avrebbe solo genericamente allegato, senza darne una dimostrazione specifica, l’avvenuta interlocuzione con soggetti bancari nel periodo di riferimento o l’accesso al sistema di archivio della Centrale Rischi da parte di operatori interessati.
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7 Aprile 2023
Risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale
La Corte di Cassazione, con due recenti ordinanze, si è pronunciata in materia di risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale, precisando alcuni principi di particolare interesse ed attualità.
- Quantificazione del risarcimento del danno per morte del congiunto
La prima decisione in commento è rappresentata dall’ordinanza n. 5948 del 28/2/2023 della sez. III civile Suprema Corte (rel. Gorgoni), con la quale la Cassazione è stata chiamata a pronunciarsi in merito alle censure sollevate dai ricorrenti avverso l’iterargomentativo seguito dalla Corte territoriale, che nel quantificare il risarcimento del danno dovuto in favore di ciascun fratello della vittima di un sinistro in € 50.000,00 avrebbe scorrettamente applicato il metodo tabellare (ovvero le tabelle milanesi del 2018, basate su una forbice di valori), piuttosto che un sistema a punti, senza motivare adeguatamente le ragioni a fondamento di tale determinazione.
La Cassazione disattende il ricorso e conferma la decisione impugnata chiarendo che la liquidazione del danno da morte di un prossimo congiunto, per essere legittima, deve rispettare due principi:
- garantire l’eguaglianza dei danneggiati nel risarcimento dei danni;
- garantire adeguata flessibilità in ragione delle peculiarità del caso concreto.
Ciò posto, i giudici di legittimità ricordano e condividono la più recente giurisprudenza consolidatasi in materia, secondo cui le Tabelle di Milano del 2018 – basandosi su un sistema ‘a forbice’ e non ‘a punti’ – non garantiscono uniformità e prevedibilità delle decisioni, requisiti imprescindibili per realizzare i principi di uguaglianza e certezza del diritto.
Tuttavia, la Cassazione afferma che nell’ambito della rifusione del danno da perdita del rapporto parentale, trattandosi di un sistema liquidatorio non imposto dalla legge, resta ferma la possibilità di una valutazione equitativa basata su un sistema diverso da quello ‘a punti’, a condizione che il giudice individui ‘un complesso di argomenti chiaramente enunciati che attingano ogni elemento reputato utile per la determinazione del quantum risarcitorio nell’intervallo di valori offerto dalla precedente tabella milanese’.
Tale iter logico – secondo la decisione in commento – è stato correttamente seguito dalla corte territoriale nella sentenza impugnata, che ha adeguatamente giustificato la quantificazione del risarcimento del danno effettuata, considerando i valori medi di liquidazione del danno e valutando l’insussistenza di circostanze eccezionali che giustificassero l’aumento della misura standard del risarcimento.
- Il risarcimento del danno patrimoniale in favore del convivente
La recente ordinanza della sez. III civile della Corte di Cassazione n. 8801 del 28/3/2023 (rel. Scarano) ha affrontato il tema della risarcibilità del danno patrimoniale futuro in capo al convivente more uxorio della vittima di un sinistro.
In particolare, la Suprema Corte censura la sentenza impugnata, in quanto non avrebbe tenuto in debito conto il principio già affermato in sede di legittimità per cui al convivente more uxorio deve riconoscersi il diritto al risarcimento sia del danno morale sia di quello patrimoniale per morte del convivente, allorquando emerga la prova di uno stabile contributo apportato in vita dal defunto in favore del danneggiato.
La Cassazione evidenzia che la dimostrazione in giudizio della sussistenza di una convivenza more uxorio non può essere ritenuta significativa al solo fine di una ‘comunione affettiva’ (come ritenuto dalla corte territoriale) ma ricomprende necessariamente anche l’elemento della reciproca assistenza materiale fondata non sul vincolo coniugale e sugli obblighi giuridici che ne scaturiscono, ma sull’assunzione volontaria di un impregno reciproco, proiettato anche sul futuro. Una diversa interpretazione, afferma la Cassazione si porrebbe in aperto contrasto con la nozione di convivenza di fatto prevista dall’art. 1 comma 36 della Legge n. 76 del 2016.
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27 Marzo 2023
Whistleblowing: approvato il Decreto legislativo attuativo della Direttiva europea
Il 15 marzo 2023 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto legislativo di attuazione della Direttiva UE 2019/1937 riguardante la protezione dei whistleblower, ossia delle persone che segnalano attività illecite all’interno di un’organizzazione pubblica o privata. Il nuovo decreto disciplina in maniera organica la materia, superando la precedente frammentazione normativa e si propone di garantire un elevato livello di protezione a tali soggetti.
Ampliamento della protezione: a chi si applica e chi può segnalare le violazioni
Il nuovo decreto espande infatti il campo di applicazione della protezione, sia per quanto riguarda il contesto organizzativo che per quanto riguarda i soggetti segnalanti.
Sotto il primo profilo, esso si applica ai soggetti del settore pubblico ed ai soggetti del settore privato che nell’ultimo anno (i) hanno impiegato la media di almeno 50 lavoratori subordinati (a tempo indeterminato o determinato); (ii) avendo impiegato meno di 50 lavoratori subordinati, adottano modelli di organizzazione e gestione ai sensi del D.lgs. 231/01 ovvero operano nei settori regolamentati a livello europeo.
Sotto il secondo profilo, viene ampliata la platea delle persone con facoltà di segnalazione: dipendenti, collaboratori, lavoratori autonomi, liberi professionisti, consulenti, volontari, tirocinanti, azionisti e persone con funzioni di amministrazione, direzione e controllo. Inoltre, la segnalazione può essere effettuata non solo durante lo svolgimento del rapporto ma anche quando esso non è ancora iniziato (se le informazioni sulle violazioni sono acquisite nel corso della selezione), durante il periodo di prova e successivamente allo scioglimento dello stesso (se le informazioni sulle violazioni sono acquisite nel corso del rapporto).
Riservatezza del segnalante e canali di segnalazione
I soggetti del settore pubblico e privato dovranno quindi attivare propri canali di segnalazione che garantiscano la riservatezza del segnalante, delle persone menzionate nella segnalazione e del contenuto della stessa. La gestione del canale di segnalazione viene affidata ad un ufficio interno autonomo dedicato e con personale specificamente formato o affidata ad un soggetto esterno con le stesse caratteristiche. L’ufficio interno o il soggetto esterno dovranno rilasciare avviso di ricevimento della segnalazione entro sette giorni dalla ricezione, dare diligente seguito alla stessa e fornire riscontro entro tre mesi dall’avviso di ricevimento. Le informazioni sul canale di segnalazione dovranno essere esposte e facilmente visibili nei luoghi di lavoro ovvero pubblicate in una sezione dedicata del sito internet. Infine, è comunque garantito un canale di segnalazione esterna gestito dall’ANAC.
Chi è il “facilitatore”
È prevista anche la figura del “facilitatore”, cioè chi fornisce supporto al segnalante durante il processo di segnalazione, la cui attività deve rimanere riservata ed al quale si applicano le medesime misure di protezione previste per il whistleblower (così come ai colleghi di lavoro e alle persone legate da stabile legame affettivo o da parentela entro il quarto grado).
Protezione del whistleblower e sanzioni per chi viola la normativa
Qualsiasi forma di ritorsione o discriminazione nei confronti del whistleblower è vietata. Il decreto riformula altresì l’art. 4 della legge 604/1966 prevedendo tra le cause di nullità del licenziamento anche la segnalazione dell’illecito di cui il dipendente sia venuto a conoscenza in ragione del rapporto di lavoro.
Sono previste sanzioni da € 5.000 a 30.000 per attività ritorsive a danno del segnalante o violazione dell’obbligo di riservatezza e da € 10.000 a 50.000 per la mancata implementazione dei canali di segnalazione o adozione di procedure non conformi.
Decorrenza degli obblighi
Le disposizioni del decreto hanno effetto a decorrere dal 15 luglio 2023, precisandosi che per i soggetti del settore privato che hanno impiegato nell’ultimo anno una media di lavoratori subordinati fino a 249, l’obbligo di istituzione del canale di segnalazione interna ha effetto a decorrere dal 17 dicembre 2023.
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16 Marzo 2023
Cassazione: infondatezza dell’Appello e abuso del processo
L’ordinanza della Corte di Cassazione n. 7094 del 9/3/2023 ha affermato il principio per cui la proposizione di un appello con scarse o nulle possibilità di essere accolto, in quanto fondato su ragioni contrastanti con un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, configura una forma di abuso del processo che legittima la condanna del soccombente ai sensi dell’art. 96 comma 3 c.p.c.
Il caso
La pronuncia in commento ha ad oggetto una domanda risarcitoria avanzata da alcuni medici nei confronti di diverse Pubbliche Amministrazioni per la tardiva trasposizione della direttiva 93/16/CE, che attribuiva un trattamento economico annuo in favore dei medici specializzandi più alto rispetto a quello contemplato dalla legislazione precedente. Tale previsione, tuttavia, a dire degli attori, avrebbe avuto effettiva attuazione solo con il D.Lgs. n. 368/1999 e con l’art. 1, comma 300 della legge 23/12/2005 n. 266, con decorrenza dall’anno accademico 2006-2007, provocando loro un ingente danno.
La Corte d’Appello ha confermato la decisione di primo grado – che aveva rigettato le domande avanzate dagli attori – sulla scorta del consolidato orientamento giurisprudenziale per il quale l’inadempimento dell’Italia agli obblighi comunitari, sotto il profilo in questione, è cessato con l’emanazione del D.Lgs. n. 257 del 1991, che ha previsto una adeguata retribuzione dei medici specializzandi. Mentre, il D.Lgs. n. 368 del 1999 è intervenuto in un ambito di piena discrezionalità del legislatore nazionale.
La decisione della Suprema Corte
I Giudici di legittimità hanno dichiarato inammissibile il ricorso per Cassazione, condividendo le argomentazioni sviluppate dalla Corte d’Appello, che si pongono in linea con i principi giurisprudenziali consolidatisi in materia, da cui la Suprema Corte non ritiene vi sia ragione di discostarsi.
La Cassazione ha dichiarato, altresì, l’inammissibilità dell’impugnazione del capo della sentenza di appello relativo alle condanne dei ricorrenti al pagamento della somma di € 1.000,00 ciascuno, ai sensi dell’art. 96 c. 3 c.p.c., ritenendo che l’accertamento dei presupposti della condanna (nel caso di specie consistenti nell’uso abusivo e distorto del mezzo processuale dell’impugnazione in appello), richiede un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, se la sua motivazione risponde ad esatti criteri logico-giuridici.
Nella fattispecie oggetto di giudizio, afferma la Suprema Corte, la Corte d’Appello ha debitamente motivato la propria decisione, ritenendo che l’appellante ha impugnato la sentenza di primo grado con scarse o nulle possibilità di accoglimento del gravame, in quanto le censure erano fondate su ragioni contrastanti con la consolidata giurisprudenza di legittimità e su argomenti già disattesi, circostanza che configura un abuso del processo che legittima la condanna ai sensi dell’art. 96 comma 3 c.p.c.
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2 Marzo 2023
La nuova negoziazione assistita nelle controversie giuslavoristiche
Con la riforma del processo civile viene introdotto l’art. 2-ter del D.L. 132/2014 rubricato “negoziazione assistita nelle controversie di lavoro”, che estende la possibilità per le parti di ricorrere alla negoziazione assistita in relazione alle cause di lavoro previste dall’art. 409 c.p.c., tenendo fermo quanto disposto dall’art. 412-ter c.p.c. con riferimento alle modalità di conciliazione ed arbitrato. La nuova disposizione di legge sarà applicabile ai procedimenti instaurati dopo il 28 febbraio.
La finalità del legislatore
L’obiettivo della riforma è quello di deflazione del contenzioso, anche per le controversie di lavoro. La negoziazione assistita, infatti, consente al prestatore di lavoro di disporre dei propri diritti, anche se derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi, ma a patto che vi sia l’assistenza di almeno un avvocato per ciascuna parte e quella eventuale di un consulente del lavoro. Può svolgersi, con le dovute garanzie, anche a distanza mediante l’utilizzo di sistemi audiovisivi ed informatici.
Si tratta di uno strumento facoltativo, non costituendo condizione di procedibilità in giudizio.
Accordo e trasmissione
L’accordo raggiunto a seguito della negoziazione assistita è inoppugnabile ai sensi del comma 4 dell’art. 2113 del Codice civile. La legge lo equipara alle conciliazioni svolte nelle c.d. sedi “protette”, ovvero quei luoghi che garantiscono presuntivamente la genuinità e spontaneità del consenso del lavoratore. Ci riferiamo alla sede giudiziale, qualora sia intrapresa una causa, alla sede sindacale, alla Commissione di Conciliazione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro e al Collegio di Conciliazione e Arbitrato.
La normativa prevede, infine, che l’accordo debba essere trasmesso a cura di una delle due parti, entro dieci giorni ad una delle commissioni di certificazione, di cui all’art. 76 del decreto legislativo del 10 settembre 2003, n. 276.
Sotto un profilo operativo, si osserva che la possibilità di concludere transazioni non impugnabili ai sensi dell’art. 2113 comma 4 c.c. tramite lo strumento della negoziazione assistita, consentirebbe alle parti di evitare le incertezze applicative derivanti dagli orientamenti della giurisprudenza che hanno messo in discussione la validità degli accordi raggiunti avanti a sedi sindacali non rappresentative secondo i CCNL di riferimento.
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17 Febbraio 2023
Non è rilevabile d’ufficio l’insussistenza dei presupposti per la cancellazione di una società dal registro delle imprese
La seconda sezione civile della Corte di Cassazione, con l’Ordinanza n. 3653 del 7 febbraio 2023 ha chiarito che chiunque vi abbia interesse può agire in giudizio per far accertare, con forza di giudicato, l’insussistenza delle condizioni richieste dalla legge per la cancellazione di una società dal Registro delle Imprese.
Tale accertamento può essere finalizzato a proporre un’azione nella quale la società cancellata sia l’unica parte passivamente legittimata (come nel caso di impugnativa di compravendita immobiliare per nullità, simulazione, revoca di cui sia parte la società cancellata) ovvero litisconsorte necessaria del relativo giudizio (come nell’azione di simulazione o nell’azione di revoca della vendita dello stesso bene in favore di terzo).
Quanto precede è possibile anche se il giudice del registro delle imprese abbia già ritenuto, in sede camerale, la sussistenza dei requisiti per la cancellazione e non abbia, quindi, ordinato, a norma dell’art. 2191 c.c., la cancellazione d’ufficio dell’intervenuta cancellazione volontaria della società dal registro stesso.
Ricordato che tale interesse ad agire non sussiste qualora si proponga meramente un’azione di riscossione di un credito maturato nei confronti della società cancellata, per la quale sono passivamente legittimati i suoi ex soci (che ne rispondono, nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente, a seconda che, pendente societate, fossero limitatamente o illimitatamente responsabili per i debiti sociali: Cass. SU n. 6070 del 2013), nella recente sentenza in commento si chiarisce che l’insussistenza dei presupposti per la cancellazione della società non può essere rilevata – incidentalmente – d’ufficio dal giudice adito per le azioni proposte verso la società cancellata.
La fattispecie oggetto del giudizio di legittimità
Il curatore di un’eredità giacente agiva in giudizio per sentir dichiarare la nullità di un atto di vendita immobiliare compiuto dal de cuius in favore di una società in liquidazione. Si costituiva in giudizio il cessato liquidatore della società convenuta eccependo, tra l’altro, l’inammissibilità di ogni azione nei confronti della stessa poiché ormai cancellata dal registro delle imprese.
Il Giudice di primo grado accoglieva l’eccezione rilevando come la società risultasse estinta prima dell’avvio del giudizio. L’attore soccombente proponeva appello, lamentando che il Tribunale non avesse correttamente considerato la domanda di revoca della cancellazione della società convenuta, ai sensi dell’art. 2191 c.c. La Corte di Appello dichiarava inammissibile il motivo di gravame del curatore in quanto fondato su una domanda tardivamente proposta nel giudizio di prime cure solo in comparsa conclusionale.
Il curatore dell’eredità giacente ricorreva in Cassazione censurando la sentenza di appello in quanto non avrebbe considerato che a fronte della domanda di nullità di un contratto, il Giudice deve incidentalmente rilevare, anche d’ufficio, l’inefficacia giuridica della delibera di estinzione che la società acquirente ha illegittimamente assunto per sottrarsi al giudizio.
La decisione della Corte di Cassazione
Secondo la Suprema Corte, a seguito dell’intervenuta iscrizione della cancellazione di una società dal registro delle imprese, chiunque vi abbia interesse può agire in giudizio in sede ordinaria per far accertare, con forza di giudicato, l’insussistenza delle condizioni richieste dalla legge per la cancellazione medesima, se del caso cumulando detta azione con altra domanda cui sia strumentale, come ad esempio quella dell’impugnazione di un contratto del quale la società cancellata sia stata parte. In tal caso la società sebbene già cancellata è passivamente legittimata ovvero litisconsorte necessaria del relativo giudizio (cfr. Cass. n. 19804/2016, con riferimento all’azione di nullità proposta da un terzo; Cass. n. 10151/2004, con riguardo all’azione di simulazione assoluta o relativa; Cass. n. 11150/2003, con riguardo all’azione revocatoria ordinaria).
Precisano, però, i Giudici di legittimità che è preciso onere della parte che ne abbia interesse e legittimazione proporre tempestivamente tale azione, nel rispetto delle preclusioni del codice di rito, non potendo essere rilevata d’ufficio dal giudice (art. 99 c.p.c.). Ciò chiarito, la Corte, rilevato che non risulta provata la tempestività della domanda in questione formulata dal curatore nel primo grado di giudizio, conferma la sentenza della Corte d’Appello e respinge il ricorso.
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3 Febbraio 2023
Mediazione: chi deve provare l’accordo di riduzione della provvigione e quando il mediatore ha diritto ad essere pagato
È in capo al cliente convenuto l’onere di provare che ci sia stato un accordo di riduzione della provvigione dovuta al mediatore rispetto alle tariffe prodotte in giudizio da quest’ultimo. Inoltre, la sola sottoscrizione della proposta d’acquisto non è sufficiente perché sorga il diritto al pagamento della provvigione dovuta al mediatore.
Lo ha chiarito la Corte di Cassazione civile sez. II, nella recente sentenza 26/01/2023, n.2385, affrontando due temi di particolare interesse in materia di mediazione:
- il riparto dell’onere probatorio in merito alla sussistenza di un accordo di riduzione della provvigione rispetto alle tariffe allegate dall’agenzia immobiliare
- se la sottoscrizione della proposta d’acquisto sia sufficiente a determinare l’insorgenza del diritto del mediatore al pagamento della provvigione
Sotto il primo profilo la Suprema Corte ha confermato la decisione di appello, sostenendo che l’accordo di riduzione della provvigione intercorso tra le parti rappresenta un fatto impeditivo di efficacia delle tariffe allegate dal mediatore. Pertanto, considerato il disposto dell’art. 2697 c.c. comma 2, a norma del quale chi eccepisce l’inefficacia dei fatti costitutivi dell’altrui diritto deve provare i fatti sui quali l’eccezione si fonda, il cliente convenuto è tenuto a provare l’accordo di riduzione della provvigione, diversamente l’ammontare del credito del mediatore andrà calcolato sulla base della percentuale indicata nelle tariffe prodotte in giudizio.
Per quanto attiene, invece, al momento di insorgenza del diritto del mediatore al pagamento della provvigione, nella pronuncia in commento, la Cassazione afferma che la sottoscrizione della sola proposta d’acquisto non dà diritto alla provvigione per l’attività di mediazione.
Al fine di riconoscere al mediatore il diritto alla provvigione, l’affare deve ritenersi concluso quando tra le parti poste in relazione dal mediatore si sia costituito un vincolo giuridico che abiliti ciascuna di esse ad agire per la esecuzione specifica del negozio, nelle forme di cui all’art. 2932 c.c., ovvero per il risarcimento del danno derivante dal mancato conseguimento del risultato utile del negozio programmato. È invece da escludere il diritto alla provvigione qualora tra le parti si sia costituito soltanto un vincolo idoneo a dare impulso alle successive articolazioni del procedimento di conclusione dell’affare, come è accaduto nel caso sottoposto all’attenzione della Corte con la sottoscrizione della proposta d’acquisto.
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27 Gennaio 2023
Responsabilità da cose in custodia: risarcimento del danno e condotta colposa della vittima
La recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 37724 del 23/12/2022 fornisce l’occasione per affrontare il dibattuto tema del rilievo che il comportamento colposo del danneggiato può assumere nell’ambito della disciplina di cui all’art. 2051 c.c., argomento oggetto di innumerevoli pronunce della Suprema Corte, in aperto o larvato disaccordo tra loro.
Il caso
La precitata ordinanza ha ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni avanzata nei confronti di un ente territoriale, gestore del teatro locale, dove all’esito di uno spettacolo il ricorrente cadeva dalle ripide scale della galleria, i cui primi gradini avevano un calpestio molto stretto, non vi era corrimano e nemmeno strisce antiscivolo.
La pronuncia della Cassazione
La Cassazione ha confermato la sentenza di merito che aveva rigettato le domande del danneggiato, affermando che il sinistro fosse da ricondurre a responsabilità esclusiva dell’attore che non aveva adottato una condotta prudente e consona allo stato dei luoghi. A sostegno della decisione viene richiamato l’orientamento di legittimità per cui la condotta colposa del danneggiato può interrompere il nesso eziologico tra fatto ed evento dannoso, quando sia da escludere che lo stesso comportamento costituisca un’evenienza ragionevole o accettabile secondo un criterio probabilistico di regolarità causale, connotandosi, invece, per l’esclusiva efficienza causale nella produzione del sinistro.
I diversi orientamenti della giurisprudenza
Si tratta di una pronuncia che sembra non prendere in considerazione una tesi condivisa da numerose decisioni della Suprema Corte, secondo la quale, per elidere il nesso causale fra la cosa e il danno, non sia sufficiente l’accertamento di una condotta colposa del danneggiato, richiedendosi anche che la stessa si connoti per oggettive caratteristiche di imprevedibilità ed imprevenibilità che valgano a determinare una cesura rispetto alla serie causale riconducibile alla cosa (degradandola al rango di mera occasione dell’evento di danno) (in tal senso da ultimo Cass. civ. sez. III – 19/12/2022 n. 37059).
Secondo l’orientamento in commento, dunque, l’esclusione della responsabilità del custode – quando viene eccepita la colpa della vittima – esige un duplice accertamento: (a) che la vittima abbia tenuto una condotta negligente; (b) che quella condotta non fosse prevedibile e prevenibile dal custode.
La condotta della vittima d’un danno da cosa in custodia può integrare il caso fortuito e dirsi imprevedibile quando sia stata eccezionale, inconsueta, mai avvenuta prima, inattesa da una persona sensata. Stabilire se un determinato comportamento del danneggiato fosse prevedibile o imprevedibile è un giudizio di fatto, come tale riservato al giudice di merito: ma il giudice di merito non può astenersi dal compierlo, limitandosi a prendere in esame soltanto la natura colposa della condotta della vittima.
Il rilievo della condotta colposa della vittima ex art. 1227 c.c.
Peraltro, anche la prevedibilità e prevenibilità del sinistro non esclude che la condotta colposa della vittima – ancorché non integrante il fortuito – non possa assumere rilevanza ai fini della liquidazione del danno cagionato dalla cosa in custodia, ma questo non può avvenire all’interno del paradigma dell’art. 2051 c.c., bensì ai sensi dell’art. 1227 c.c. (operante, ex art. 2056 c.c., anche in ambito di responsabilità extracontrattuale), ossia sotto il diverso profilo dell’accertamento del concorso colposo del danneggiato. Elemento valutabile sia nel senso di una possibile riduzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa del danneggiato e le conseguenze che ne sono derivate (ex art. 1227 c.c., comma 1), sia nel senso della negazione del risarcimento per i danni che l’attore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza (ex art. 1227 c.c., comma 2), fatta salva, nel secondo caso, la necessità di un’espressa eccezione della controparte (ex multis Cassazione Civile, Sez. III, 20/11/2020, n. 26524).
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19 Gennaio 2023
Dal 1° marzo gli arbitri avranno la facoltà di emanare provvedimenti cautelari
Una delle novità di maggior interesse in materia di arbitrato, conseguente all’entrata in vigore del D.lgs 10 ottobre 2022 n. 149, che ha attuato la legge delega di riforma del processo civile, è rappresentata dalla possibilità per le parti di attribuire agli arbitri poteri cautelari, consentendo loro di pronunciare provvedimenti anticipatori rispetto alla decisione finale.
Prima della riforma, l’Italia era uno dei pochi Paesi a livello mondiale in cui gli arbitri non erano autorizzati a concedere misure cautelari. La formulazione ora abrogata dell’articolo 818 c.p.c. vietava espressamente agli arbitri la possibilità di concedere sequestri o altri provvedimenti cautelari, “salva diversa disposizione di legge” che risultava, però, assente.
Con le nuove disposizioni l’ordinamento giuridico italiano si allinea alle altre principali normative europee, come quelle di Francia, Regno Unito, Germania, Austria e Spagna.
Il nuovo articolo 818 c.p.c. prevede che gli arbitri possano emanare misure cautelari quando vi sia una espressa attribuzione delle parti, che sia stata manifestata nella convenzione di arbitrato o in atto scritto anteriore all’instaurazione del giudizio arbitrale.
Inoltre, il nuovo articolo 818 c.p.c. riconosce il potere esclusivo degli arbitri di ordinare misure cautelari, escludendo così il potere concorrente del tribunale. Nel caso in cui le parti conferiscano questo potere agli arbitri, il tribunale ordinario è competente a decidere su eventuali domande cautelari antecedenti all’accettazione dell’arbitro unico o alla costituzione del collegio arbitrale, ai sensi degli artt. 669-quinquies c.p.c.
Nel procedimento arbitrale il provvedimento cautelare può essere reclamato davanti alla Corte d’Appello del distretto dove ha sede l’arbitrato. Tuttavia, a differenza di quanto previsto per le misure cautelari adottate dai giudici, con il reclamo possono essere contestate la violazione dell’ordine pubblico o delle regole procedurali che comportano la nullità di un lodo e non la violazione di legge o gli errori sul fatto.
Infine, poiché agli arbitri non sono attribuiti poteri coercitivi, l’attuazione del provvedimento cautelare è affidata al tribunale nel cui circondario ha sede l’arbitrato e, se avviene all’estero, al tribunale del luogo in cui la misura deve essere eseguita.
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12 Gennaio 2023
Fusioni, scissioni e trasformazioni transfrontaliere
Lo schema di Decreto Legislativo di attuazione della Direttiva UE 2019/2121 è attualmente al parere delle commissioni parlamentari.
Lo scorso 9 dicembre 2022 il Sottosegretario di Stato per i rapporti con il Parlamento – in seguito all’approvazione, in esame preliminare, da parte del Consiglio dei Ministri – ha trasmesso al Presidente del Senato lo schema di decreto legislativo per l’attuazione della direttiva UE 2019/2121 (pubblicata il 12 Dicembre 2019 sulla Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea) che modifica la direttiva UE 2017/1132 relativa alle trasformazioni, fusioni e scissioni transfrontaliere, affinché venga sottoposto al parere delle competenti commissioni parlamentari.
Entro il 31 gennaio 2023 tutti gli Stati membri dell’Unione Europea dovranno recepire la direttiva che introduce, per la prima volta, un regime armonizzato per le trasformazioni e le scissioni transfrontaliere, ovvero operazioni societarie che coinvolgono più di uno Stato membro, in quanto sino ad oggi soltanto le fusioni transfrontaliere erano state oggetto di una disciplina armonizzata, prima contenuta nella direttiva 2005/56/CE e poi consolidata nella direttiva 2017/1132.
Il principio di fondo della direttiva in commento è rappresentato dalla libertà di stabilimento delle società all’interno dei diversi Paesi dell’Unione Europea, semplificando la realizzazione di operazioni societarie transfrontaliere.
Nello specifico, gli elementi di maggiore novità contenuti nella direttiva 2019/2121 attengono a:
- previsione di disposizioni di diritto materiale uniforme e non solo di norme di conflitto, relative alla procedura da seguire per effettuare l’operazione societaria prescelta;
- previsioni di tutela delle diverse categorie di soggetti interessati dall’operazione societaria transfrontaliera, tra le quali i soci dissenzienti, che hanno il diritto di recedere dalla società, a fronte della liquidazione della propria partecipazione, un adeguato sistema di tutela degli interessi dei creditori, garanzia dei diritti di informazione e di consultazione dei lavoratori.
La direttiva in commento stabilisce anche apposite procedure volte a verificare la legalità delle operazioni transfrontaliere, in base alle quali le autorità nazionali potranno impedire le operazioni cross-border qualora riscontrino finalità scorrette o fraudolente.
20 Dicembre 2022
Qual è la sorte del contratto di mutuo fondiario nel caso in cui venga superato il limite di finanziabilità? La risposta delle Sezioni Unite
Con la sentenza n. 33719 del 16 novembre 2022, le Sezioni Unite della Suprema Corte di Cassazione (rel. Lamorgese) hanno affrontato la questione di massima importanza sulla quale si sono formati orientamenti di legittimità divergenti, della sorte del contratto di mutuo fondiario concesso per un importo eccedente il limite di finanziabilità di cui all’art. 38 TUB.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale (Cass. n. 26672/2013; Cass. n. 27380/2013; Cass. n. 22446/2015; Cass. n. 13164/2016), la violazione dell’art. 38, comma 2, TUB, non può provocare la nullità del contratto di mutuo fondiario, in quanto il limite di finanziabilità ivi previsto non incide sul sinallagma contrattuale e, quindi, non concerne la validità dello stesso, ma investe esclusivamente il comportamento della banca tenuta ad attenersi al limite prudenziale ivi stabilito, con conseguente applicazione delle sanzioni amministrative previste dal Testo Unico ed un eventuale diritto al risarcimento del danno del mutuatario.
Secondo un diverso orientamento di legittimità (Cass. n. 17352/2017, Cass. n. 19016/2017, Cass. n. 29745 del 2018, Cass. n. 10788/2022) la violazione dell’art. 38, comma 2 TUB, determina la nullità del contratto di mutuo fondiario e la sua conversione in mutuo ipotecario ordinario, in quanto la prescrizione del limite massimo di finanziabilità da parte della Banca d’Italia si inserisce in ogni caso tra gli elementi essenziali perché un contratto di mutuo possa dirsi fondiario. La fissazione di un limite di finanziabilità non è confinabile nell’area del comportamento della contrattazione tra banca e cliente, ma ha la funzione di regolare il quantum della prestazione creditizia, in modo da incidere direttamente sulla fattispecie.
Le Sezioni Unite, nella pronuncia in commento, risolvono il suddetto contrasto affermando due principi di diritto:
- la violazione del limite di finanziabilità di cui all’art. 38 TUB non comporta nullità del contratto di mutuo fondiario, in quanto non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa dello stesso o posta a presidio della validità dell’accordo, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell’oggetto del contratto;
- è esclusa la riqualificazione del contratto: da mutuo fondiario a ipotecario ordinario. Ad avviso delle Sezioni Unite, una volta esclusa la nullità (totale o parziale) del contratto per superamento del limite di finanziabilità, non è consentito all’interprete intervenire (d’ufficio) sugli effetti legali del contratto per neutralizzarli, facendo applicazione di un diverso modello negoziale (mutuo ordinario) non voluto dalle parti, seppure appartenente alla stessa famiglia o genus contrattuale.
Si tratta di una decisione di particolare rilievo pratico, in quanto pone fine ad un’incertezza interpretativa con rilevanti conseguenze applicative, ma di certo non immune da rilievi critici, in particolare per quanto attiene alla qualificazione quale norma di comportamento dell’art. 38, comma 2, TUB.
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13 Dicembre 2022
Cassazione: si può registrare le conversazioni con i colleghi di lavoro, anche senza il loro consenso, al fine di tutelare i propri diritti
In una recente sentenza n. 28398 del 29/09/2022 la Corte di Cassazione ha affermato che la registrazione di una conversazione tra colleghi all’insaputa dei presenti, entro determinati limiti e condizioni, può costituire fonte di prova, legittimamente utilizzabile in giudizio.
Infatti, il diritto alla riservatezza delle conversazioni e al consenso al trattamento di dati personali deve essere bilanciato con il diritto di difesa del lavoratore che lo legittima a raccogliere fonti di prova in vista di un futuro giudizio.
Nel caso di specie, la sentenza della Corte d’Appello impugnata aveva ritenuto inammissibile l’utilizzo in giudizio della registrazione di conversazioni intercorse tra colleghi che, in ipotesi, avrebbero dimostrato l’intento ritorsivo del licenziamento successivamente deciso dall’azienda. Secondo la Corte d’Appello le registrazioni erano “abusive, illegittimamente captate e registrate” e quindi non idonee a costituire fonte di prova nel giudizio civile.
Al contrario, nel valutare se la condotta di registrazione di conversazioni tra un dipendente e i suoi colleghi, all’insaputa degli stessi, possa integrare una violazione del diritto alla riservatezza, la Cassazione, ha evidenziato come la disciplina contenuta nel Codice in materia di protezione dei dati personali consenta di prescindere dal consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati sia necessario per esercitare il proprio diritto di difesa in giudizio. Sempre a condizione che:
– i dati siano trattati esclusivamente per tale fine e solo per il periodo necessario al suo perseguimento;
– colui contro il quale la registrazione è prodotta non contesti che la conversazione sia realmente avvenuta, né che abbia avuto il tenore risultante dalla riproduzione (sempre che tali eccezioni siano tempestive e circostanziate);
– almeno uno dei soggetti tra cui si svolge la conversazione sia parte in causa.
La decisione in commento evidenzia, ancora una volta, come tra diritti fondamentali che entrano in conflitto tra loro (nel caso di specie diritto alla riservatezza e diritto di difesa) non sia possibile individuare in astratto e a priori una scala di valori e priorità, ma occorra, di volta in volta –sulla base della fattispecie concreta – effettuare un attento contemperamento, volto a delineare i rispettivi limiti applicativi, al fine di bilanciare le diverse esigenze di tutela.
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