4 Luglio 2024
Acquistare un immobile è un passo di grande importanza per aziende e privati, ma può implicare il rischio di scoprire opere abusive non conformi alla piantina originaria e non regolarizzate. Come ci si può difendere in queste situazioni?
Con l’ordinanza n. 17148 del 21 giugno 2024, la Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, ha regolato il caso in cui l’acquirente, dopo la stipula del contratto preliminare, si era reso conto dell’esistenza di abusi edilizi insanabili all’interno dell’immobile, e conseguentemente adiva l’autorità giudiziaria chiedendo la risoluzione del contratto e la restituzione del doppio della caparra, ai sensi dell’art. 1385 del Codice civile.
Il caso
Nel caso di specie, l’acquirente aveva versato una caparra all’atto di stipula del contratto preliminare, ma dopo una perizia da parte di un tecnico di fiducia, si era accorto che l’immobile presentava gravi irregolarità edilizie, non avendo mai ottenuto la concessione edilizia, né la sanatoria, per tutta una serie di opere abusive, tra cui la creazione di una nuova finestra e di un bagno.
Inizialmente l’acquirente aveva chiesto in via stragiudiziale la restituzione del doppio della caparra, ma dopo il rifiuto da parte del venditore, aveva deciso di ricorrere in giudizio, azionando il suddetto diritto come conseguenza dell’esercizio del recesso dal contratto preliminare di compravendita immobiliare.
Il Tribunale di primo grado aveva accolto la domanda di recesso dell’acquirente e ordinato al venditore la restituzione del doppio della caparra. La decisione era stata poi confermata in Appello, poiché mancava la concessione edilizia per le opere realizzate e non era possibile ottenere la DIA (Denuncia di Inizio Attività) a causa degli abusi edilizi originari.
L’ordinanza della Cassazione
Il venditore aveva quindi deciso di ricorrere in Cassazione, sostenendo che l’acquirente non poteva chiedere la restituzione del doppio della caparra, in quanto la presenza di abusi edilizi insanabili portava alla nullità del contratto preliminare, con conseguente illegittimità del recesso e della richiesta di restituzione del doppio della caparra.
Con l’ordinanza n. 17148, la Suprema Corte ha confermato la decisione della Corte di Appello, sottolineando la validità del contratto preliminare. Per la Cassazione, in questi casi, l’azione deve essere ricondotta nell’ambito di operatività dell’art. 1489 del Codice civile, in quanto la mancanza del titolo edilizio abitativo (o della concessione edilizia in sanatoria) è considerata una limitazione del libero godimento dell’immobile o, quanto meno, una diminuzione del suo valore.
Inoltre, se è indispensabile che l’atto di compravendita di un immobile indichi gli estremi della concessione edilizia, pena la sua nullità, lo stesso non vale per il contratto preliminare, i cui effetti sono obbligatori e non traslativi.
Per il giudice di Appello, così come per quello di primo grado, nonostante la presenza nel preliminare di compravendita di una dichiarazione formale che attestava la realizzazione dell’edificio prima del 1967 (anno di entrata in vigore della c.d. Legge Ponte che ha esteso molti degli obblighi previsti dalla Legge Urbanistica del 1942), lo stesso era stato oggetto di opere successive al 1967 senza un titolo urbanistico valido. La falsa dichiarazione del venditore non è però da considerarsi un difetto originario del contratto preliminare tale da invalidarlo, ma ha conseguenze sulla sua esecuzione e sull’adempimento degli obblighi contrattuali dallo stesso discendenti.
Per tale motivo, l’acquirente può recedere dal contratto preliminare e richiedere il doppio della caparra versata.
Seguici su LinkedIn