5 Aprile 2022
Un contratto bancario chiamato dal punto di vista formale “assicurazione sulla vita” può avere una finalità d’investimento se le parti hanno raggiunto l’accordo sulla sostanza del negozio: lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’Ordinanza n. 9446/22.
Nel caso di specie, un soggetto aveva stipulato con una società bancaria un contratto qualificato come “assicurazione sulla vita”, il quale stabiliva che il premio versato fosse investito in fondi speculativi, senza prevedere un rendimento minimo, né la garanzia di restituzione di almeno il capitale investito. I due fondi, ai quali era stato indirizzato il premio, erano nel tempo divenuti illiquidi. Quando l’attore ha esercitato il diritto di riscatto, ha ricevuto una somma notevolmente inferiore rispetto a quanto investito. Per tale motivo ha chiesto che fosse dichiarato nullo il contratto per violazione delle norme che disciplinano gli obblighi informativi precontrattuali e quelli di diligenza gravanti sugli intermediari. Nei precedenti gradi di merito la richiesta è stata respinta. Per tale motivo, l’attore ha presentato ricorso in Cassazione denunciando che, pur avendo stipulato un contratto formalmente chiamato di “assicurazione”, si trattava di un contratto di investimento che, di conseguenza, fosse nullo.
La Cassazione ha rigettato l’appello, sancendo che il contratto di investimento è valido e lecito e non diventa nullo solo perché le parti lo abbiano qualificato “assicurazione sulla vita”, condizione che esso non contrasti con norme imperative o, se l’erronea qualificazione formale, non abbia tratto in inganno le parti. Una circostanza che in questo caso non è avvenuta in quanto l’attore era consapevole fin dall’inizio della tipologia di contratto che andava a firmare.
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