7 Marzo 2024
Digital Services Act: anche gli operatori più piccoli devono adeguarsi al nuovo Regolamento Europeo 2022/2065
Dal 17 febbraio 2024, tutti i servizi intermediari che trasmettono o memorizzano informazioni online devono rispettare le disposizioni previste dal Digital Services Act (DSA) – Regolamento UE 2022/2065, che ha la finalità di garantire un ambiente online sicuro, in cui i diritti fondamentali degli utenti siano protetti, vietando la divulgazione di materiale illegale.
A chi si applica
Il DSA si applica alle piattaforme online, motori di ricerca e servizi di hosting (cloud e web) che operano nel mercato dell’Unione Europea, a prescindere dal fatto che la loro sede sia all’interno dell’Unione Europea o meno.
Cosa cambia per le imprese
A partire dal 17 febbraio 2024 tutte le imprese italiane che rientrano nelle categorie sopraelencate dovranno, quindi, conformarsi alle disposizioni del DSA al fine di assicurare un ambiente più sicuro e promuovere la parità e la competizione nel contesto del mercato digitale europeo. Lo stesso vale per le imprese straniere operative in Italia.
Quali sono i nuovi obblighi per le piattaforme digitali
Il DSA introduce un elenco particolarmente ampio di nuovi obblighi per gli operatori, la cui portata differisce in base alla grandezza e al ruolo specifico che questi ultimi ricoprono nell’ambiente digitale. Per tutti, indipendentemente dalle dimensioni, vige l’obbligo di gestire ed elaborare le segnalazioni degli utenti, rispetto ai contenuti ritenuti illegali, prevedendo delle procedure ad hoc per una loro rapida rimozione. Il rispetto dei diritti fondamentali rappresenta un ulteriore elemento chiave del DSA. Tutti i soggetti che forniscono servizi digitali sono tenuti ad assicurare che i propri “termini e condizioni di servizio” siano conformi a tali diritti per proteggere gli utenti da disposizioni contrattuali abusive o discriminatorie. Al fine di incrementare la trasparenza, il DSA prescrive alle piattaforme online di divulgare informazioni essenziali, tra cui gli algoritmi impiegati per i suggerimenti.
Struttura di supervisione paneuropea
La valutazione di queste pratiche sarà affidata alla nuova struttura di supervisione paneuropea, che prevede un ruolo attivo della Commissione europea, autorità competente a sorvegliare le 19 piattaforme più grandi: due motori di ricerca (Bing e Google Search) e 17 grandi piattaforme online: tra social media, servizi di commercio elettronico, servizi Google, ma anche Booking.com, Wikipedia e YouTube. Per l’Italia il coordinatore nazionale dei servizi digitali è l’Agcom che si occupa della vigilanza, dell’applicazione del Regolamento e coordina le altre autorità nazionali competenti.
Cosa succede in caso di violazione
Per chi viola le regole sono previste sanzioni fino al 6% del fatturato annuo complessivo o il blocco temporaneo delle attività. I fruitori dei servizi digitali hanno il diritto di richiedere un risarcimento per eventuali danni o perdite derivanti da violazioni commesse dalle piattaforme. Inoltre, sono previste ulteriori sanzioni nel caso in cui le piattaforme forniscano informazioni errate, incomplete o fuorvianti e non provvedano a correggerle, o a cooperare durante le ispezioni.
È essenziale che gli operatori inclusi nelle categorie indicate dal DSA, comprese le piccole e microimprese, si accertino di operare in conformità alle disposizioni stabilite dal suddetto Regolamento Europeo, attraverso una corretta informazione e l’adozione delle misure necessarie. Il rispetto delle disposizioni previste dal Regolamento Europeo non è solo un obbligo, ma può anche essere un’opportunità per distinguersi sul mercato attraverso l’adozione di pratiche trasparenti e responsabili, tema a cui gli utenti sono sempre più sensibili.
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26 Febbraio 2024
Le Sezioni Unite escludono che le domande riconvenzionali siano sottoposte alla mediazione obbligatoria
La recentissima sentenza della Cassazione a Sezioni Unite n. 3452 del 7 febbraio 2024 – all’esito di un’articolata motivazione – ha chiarito che non è necessario avviare la mediazione prima di proporre una domanda riconvenzionale.
Il rinvio pregiudiziale
L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. del Tribunale di Roma ha posto la questione di diritto se, ai sensi dell’art. 5 del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sussista l’obbligo di provvedere alla mediazione nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola domanda principale.
L’iter argomentativo della Cassazione
Le Sezioni Unite hanno affrontato il quesito poco sopra richiamato, distinguendo le ipotesi di domanda riconvenzionale ‘non eccentrica’ – fattispecie che si ravvisa quando la domanda principale e quella riconvenzionale hanno un collegamento obiettivo – e di riconvenzionale ‘eccentrica’ – rappresentata dall’ipotesi in cui tra le due domande non sussista alcuna connessione.
- Per quanto riguarda le domande riconvenzionali ‘non eccentriche’ la Cassazione esclude che possano essere sottoposte alla condizione di procedibilità della mediazione obbligatoria per due ragioni: i) in primo luogo, sulla base del dettato normativo, infatti il D.lgs. n. 28 del 2010 non prende in alcun modo in considerazione la domanda riconvenzionale; ii) in secondo luogo, sottoporre la domanda riconvenzionale ‘non eccentrica’ alla mediazione obbligatoria non risponde alla ratio della disciplina di legge, finalizzata alla deflazione del contenzioso, in quanto la lite è già pendente.
- Con riferimento alle domande riconvenzionali ‘eccentriche’ la Cassazione esclude, parimenti, l’obbligatorietà del tentativo di mediazione richiamando, negli stessi termini sopra esposti, la ratio della normativa di settore e sviluppando un articolato ragionamento in relazione alla certezza del diritto ed alla ragionevole durata dei processi. Principi che verrebbero frustrati dalle interpretazioni della giurisprudenza volte ad estendere, con distinzioni casistiche – l’obbligo di mediazione alle domande riconvenzionali eccentriche.
Principio di diritto
Alla luce di quanto precede, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione formulano il seguente principio di diritto: “La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 D.Lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile“.
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16 Febbraio 2024
Il carattere “confessorio” dell’annotazione contabile delle fatture: analisi della sentenza della Corte di Cassazione n. 3581/2024
La recente sentenza della Cassazione n. 3581 pubblicata l’8 febbraio 2024 ha ribadito il principio di diritto che attribuisce particolare rilevanza alle fatture commerciali e, nello specifico, all’annotazione contabile delle stesse da parte del destinatario, riconoscendole carattere “confessorio”, in assenza di contestazioni.
Il caso
Nel caso preso in esame dalla Corte Suprema, una società, attiva nel settore dello smaltimento dei rifiuti di lavorazione, aveva visto annullare un decreto ingiuntivo a seguito dell’opposizione presentata dall’impresa che le aveva fornito i materiali di scarto. Quest’ultima affermava che le prestazioni indicate nella fattura non corrispondevano a quanto stabilito nel contratto.
Il destinatario della fattura, tuttavia, aveva annotato la fattura nelle proprie scritture contabili e non l’aveva contestata in via stragiudiziale, salvo poi opporsi al decreto monitorio, con il quale la società emittente cercava di ottenere il pagamento dell’importo regolarmente fatturato. I giudici di merito avevano accolto l’opposizione senza riconoscere il valore di prova della fattura e ignorando il comportamento del destinatario, che l’aveva annotata nelle proprie scritture contabili.
Decisione della Cassazione
Nel caso specifico, la Cassazione ha accolto il ricorso presentato dalla società emittente la fattura, sottolineando l’efficacia probatoria piena dell’annotazione contabile della fattura da parte del debitore, che costituisce un atto ricognitivo di natura confessoria. Sulla scorta di tale principio la Corte ha, quindi, rilevato che la sentenza impugnata aveva erroneamente negato la valenza probatoria della fattura nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo.
Principio di diritto
Il principio di diritto posto a fondamento della decisione in commento della Suprema Corte afferma che una fattura commerciale non solo ha efficacia probatoria nei confronti dell’emittente, ma può costituire piena prova per entrambe le parti dell’esistenza di un corrispondente credito quando la fattura è accettata dal destinatario della prestazione. Tale accettazione può ricavarsi dall’annotazione della fattura nella propria contabilità da parte del destinatario e dall’assenza di contestazioni stragiudiziali della stessa. In queste circostanze, l’annotazione contabile della fattura costituisce atto ricognitivo di un fatto produttivo di un rapporto giuridico sfavorevole al dichiarante che, in quanto tale, ha natura confessoria, in forza di quanto disposto dall’art. 2720 c.c.
Conseguenze della Decisione
La decisione della Cassazione sottolinea che la registrazione di una fattura nella contabilità può rappresentare una prova scritta dell’esistenza di un credito tra imprenditori. Questa annotazione può essere considerata un atto ricognitivo del debito da parte del soggetto destinatario, con natura confessoria, come indicato dall’art. 2720 del Codice Civile. In altre parole, in linea generale, l’impresa che registri una fattura passiva nella propria contabilità senza contestarla sta riconoscendo di essere debitrice nei confronti dell’impresa che ha emesso tale fattura, con valore di piena prova di quanto riportato in fattura a vantaggio di quest’ultima.
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15 Febbraio 2024
Doppio binario per le azioni di classe in Italia
Dallo scorso 25 giugno la class action in Italia viaggia su due diversi binari: il Dlgs 28/2023, in attuazione della Direttiva 2020/1828 del Parlamento Europeo, ha introdotto una nuova azione rappresentativa che si affianca alla procedura prevista dalla legge 31/2019.
Fonti normative
Nell’ordinamento italiano esistono due tipologie di tutela collettiva.
La legge n. 31 del 12.4.2019 (“Legge 31”) contiene una disciplina generale dell’azione di classe a tutela di diritti individuali omogenei nei confronti di imprese e gestori di servizi pubblici, che può essere promossa da persone (consumatori, professionisti, imprese) in base al principio dell’opt in. Il promotore deve nominare un avvocato e conferirgli procura. I membri della classe possono aderire all’azione anche senza nominare un difensore.
In attuazione della Direttiva 2020/1828 del Parlamento Europeo sulle azioni rappresentative, è stato emanato il Dlgs. N. 28 del 10.3.2023 (“Decreto 28”), che modifica il codice del consumo per disciplinare le azioni collettive promosse solo da associazioni di consumatori aventi particolari requisiti. Le associazioni aventi legittimazione non necessitano di procura da parte dei consumatori. La Legge 31 si applica alle condotte illecite poste in essere successivamente al 19 maggio 2021. Secondo la prevalente interpretazione, l’azione di classe generale non può tutelare fattispecie in parte occorse prima e in parte dopo la data di riferimento menzionata.
Il Decreto 28 si applica alle violazioni successive al 25 giugno 2023. Inoltre, è prevista eccezionalmente una disposizione specifica per la prescrizione e la decadenza delle azioni rappresentative: il ricorso notificato interrompe la prescrizione dei diritti dei consumatori tutelabili con le azioni risarcitorie e dal deposito del ricorso sono impedite le decadenze a loro carico.
Il Giudice competente a conoscere delle azioni di classe e delle azioni rappresentative è la sezione specializzata in materia di imprese del tribunale del luogo ove ha sede la resistente.
Il Ministero della giustizia ha istituito un’apposita area dedicata alle azioni di classe e rappresentative sul portale dei servizi telematici in modo che tutti gli interessati possano essere informati dell’esistenza delle azioni e della possibilità di aderirvi.
Decorsi 60 giorni dalla pubblicazione del ricorso sul citato portale, non possono essere proposte ulteriori azioni basate sugli stessi fatti e nei confronti dello stesso resistente, salvo il caso di inammissibilità o di rigetto per motivi processuali.
Non è prevista la possibilità di riunione di azioni collettive soggette ai due regimi previsti dalla legge.
Caratteristiche delle tutele collettive
L’azione di classe prevista dalla Legge 31 è un’azione generale a tutela dei titolari di diritti individuali omogenei esperibile in qualsiasi materia contrattuale o aquiliana per ottenere risarcimenti dei danni, restituzioni o provvedimenti inibitori. Riteniamo condivisibile la pronuncia del Tribunale di Venezia, secondo cui “si ravvisa l’omogeneità dei diritti in capo a parte ricorrente e ai possibili aderenti all’azione di classe …. trattandosi di soggetti portatori di situazioni giuridiche soggettive che traggono origine dalla medesima reiterata condotta illecita ascritta alla società convenuta, la cui tutela dipende dalla risoluzione di comuni questioni di fatto e di diritto idonee ad essere definite con un solo provvedimento giurisdizionale di contenuto uniforme” (Tribunale Venezia, ordinanza 05/04/2017, pubblicata da Il Caso).
Dal punto di vista temporale, la pronuncia del giudice veneziano chiarisce che la definizione di diritti omogenei comprende non solo i diritti lesi da un unico fatto, realizzatosi nelle medesime circostanze di tempo e di luogo, generatore di danno nei confronti di una pluralità di soggetti, ma contempla anche i diritti lesi da condotte illecite reiterate nel tempo con analoghe conseguenze dannose. Qualora un’associazione di consumatori intenda promuovere un’azione in base alla Legge 31 deve essere iscritta nell’elenco pubblico tenuto dal Ministero della giustizia.
L’azione rappresentativa prevista dal Decreto 28 è concessa solo alle associazioni di consumatori debitamente iscritte in un elenco pubblico tenuto dal Ministero per la transizione ecologica.
Le azioni rappresentative ex Decreto 28 possono tutelare solo un elenco chiuso di 68 materie indicate in un allegato della Direttiva 2020/1828, fra le quali, ad esempio, la tutela dei consumatori, la responsabilità del produttore, i rimedi contro le violazioni antitrust, il commercio elettronico, i dati personali, i prodotti farmaceutici, la pubblicità ingannevole, i servizi finanziari, bancari e assicurativi, i trasporti di ogni tipo, i viaggi organizzati, la sicurezza dei prodotti alimentari, i servizi d’investimento e la tutela collettiva del risparmio, i servizi di pagamento, il credito al consumo, gli immobili residenziali, gli apparecchi medicali, il collocamento di strumenti finanziari. Il Decreto 28 fissa stringenti requisiti per l’iscrizione nell’elenco pubblico delle associazioni di consumatori, fra i quali l’indipendenza, la soggezione ad un organo di controllo per prevenire il conflitto d’interessi, l’assenza di fini di lucro e il possesso di un sito per pubblicizzare l’attività.
Le azioni rappresentative posso essere esperite per ottenere provvedimenti inibitori o compensativi e possono essere transfrontaliere, ovvero proposte in Italia da associazioni di consumatori straniere o promosse in un altro Stato membro dell’Unione da un’associazione di consumatori nazionale, in entrambi i casi purché le associazioni abbiano i requisiti fissati dalla Direttiva 2020/1828 e siano iscritte nell’elenco tenuto dalla Commissione Europea.
È possibile che un’azione transfrontaliera regolata dal Decreto 28 coesista con un’azione nazionale ex Legge 31 promossa per tutelare identiche violazioni da parte di un soggetto diverso dalle associazioni di consumatori qualificate.
Il Decreto 28 introduce un divieto per le associazioni di consumatori di proporre azioni in forza della Legge 31 nelle 68 materie elencate dal Decreto 28 stesso.
Mentre la Legge 31 non disciplina il finanziamento delle azioni di classe, il Decreto 28 regola questa fattispecie, limitando il conflitto d’interesse dei finanziatori e prevedendo anche l’obbligo delle associazioni dei consumatori di rivelare i dettagli del finanziamento ricevuto per promuovere l’azione.
Applicabilità della mediazione
L’azione di classe è astrattamente concessa anche per materie alle quali è applicabile la mediazione obbligatoria, salvo per le azioni inibitorie, per le quali è espressamente esclusa.
L’art. 15 del Dlgs n. 28 del 2010 in materia di mediazione, come modificato dalla riforma Cartabia, dispone che, nell’azione rappresentativa, la conciliazione intervenuta dopo la scadenza del termine per l’adesione, ha effetto anche nei confronti degli aderenti, che vi abbiano espressamente consentito.
In assenza di una disposizione sull’applicabilità della mediazione all’azione di classe disciplinata dal codice di rito, è ragionevole ritenere che la disposizione dell’art. 15 sopra citato possa estendersi per analogia alle azioni ex Legge 31 e quindi la eventuale conciliazione possa essere sfruttata dagli aderenti successivamente all’avvio della mediazione.
Ricordiamo che le azioni di classe italiane sono basate sul principio dell’opt in e quindi è necessaria una manifestazione di volontà dell’aderente per partecipare all’azione e alla conciliazione.
Il procedimento
Il Codice di procedura civile assoggetta le azioni collettive al rito sommario di cognizione, oggi divenuto, a seguito della riforma Cartabia, procedimento semplificato di cognizione.
Si tratta di una scelta discutibile, in quanto il rito prescelto è pensato per trattare procedimenti i cui fatti non siano controversi e che richiedano un’istruttoria sommaria, caratteristiche spesso assenti in caso di contenziosi con molteplici parti e questioni giuridiche complesse, ancorché seriali.
Il procedimento è suddiviso in tre fasi.
La prima riguarda l’ammissibilità dell’azione, da intendersi nel senso della certificazione della classe nel senso anglosassone.
La seconda fase disciplina il merito vero e proprio, l’istruzione probatoria e l’adesione dei membri della classe. Aspetti peculiari della fase istruttoria sono rappresentati dalla possibilità che le spese del consulente tecnico del giudice siano poste a carico del resistente e dalla facoltà del giudice di avvalersi di dati statistici e presunzioni semplici. Sono altresì ammessi ordini di esibizione particolarmente invasivi.
La terza fase inizia con la sentenza di merito che, in caso di accoglimento, provvede in ordine alle domande, definisce i caratteri dei diritti individuali omogenei di cui devono essere portatori gli aderenti alla classe, nomina il giudice delegato per la procedura di adesione e il rappresentante comune della classe, che può essere diverso dal ricorrente e fissa il fondo spese dovuto da ciascun aderente.
Dopo l’emanazione della sentenza, il rappresentante comune della classe presenta il progetto di liquidazione dei diritti degli aderenti, a cui il resistente e gli aderenti possono fare osservazioni.
Il progetto viene approvato e reso esecutivo dal giudice delegato con decreto. Con lo stesso decreto, il giudice liquida le competenze del rappresentante comune e dei difensori del ricorrente originario in misura percentuale decrescente, secondo una tabella commisurata al numero dei partecipanti all’azione e al valore complessivo dovuto ai membri della classe.
Tutti gli interessati possono impugnare il decreto del giudice delegato. Le opposizioni danno avvio a uno o più subprocedimenti, anche per le posizioni di singoli aderenti.
L’opposizione al decreto è decisa dal collegio.
Inoltre, l’aderente può esercitare la facoltà di opt out solo prima che il decreto diventi definitivo nei suoi confronti.
Il codice di rito disciplina anche le transazioni proposte dalle parti o dal giudice in corso di causa. In caso di raggiungimento di una conciliazione, gli aderenti possono dichiarare di accedere all’accordo o possono esercitare la facoltà di opt out.
Avvocato Cino Raffa Ugolini
7 Febbraio 2024
FRANCIA – Recepimento della direttiva comunitaria sull’Agenzia: un cantiere ancora aperto
La disciplina dell’agenzia nei singoli Paesi membri dell’Unione Europea ha una fonte comune: la Direttiva 86/653 relativa al coordinamento dei diritti degli Stati Membri concernenti gli agenti commerciali indipendenti.
A distanza di anni dalle prime trasposizioni nei diritti nazionali, non si è ancora completato, all’interno dell’UE, il cantiere di “coordinamento”, da intendersi come adeguamento delle norme interne alle disposizioni della Direttiva e non certamente come uniformizzazione totale dei diritti nazionali. È infatti nella natura stessa delle Direttive comunitarie lasciare agli Stati un margine di manovra per recepirle.
Nel caso dell’agenzia, si pensi in particolare all’art. 17 della Direttiva 86/653 che offre agli Stati membri due strumenti alternativi a tutela dei diritti dell’agente quando cessa il rapporto contrattuale: l’indennità (il cosiddetto “modello tedesco” adottato anche in Italia) oppure la riparazione del danno subito (il cosiddetto “modello francese”).
Il recepimento della Direttiva è avvenuto in Francia con una legge del 1991 e relativi decreti attuativi, successivamente codificati nel “Code de Commerce”.
Il cantiere rimane tuttora aperto e tenuto conto dei rapporti d’affari tra i due Paesi, le imprese italiane possono essere interessate a seguire l’avanzamento dei lavori, rimanendo l’agenzia uno strumento diffuso per conquistare fette di mercato.
È assai raro che un preponente italiano scelga spontaneamente di assoggettare alla legge francese il rapporto con un agente locale, ma capita di dover fare i conti con tale legge. Per esempio:
- il contratto è stipulato da una controllata o partecipata francese della società italiana: trattandosi di rapporto franco-francese, la legge locale trova applicazione;
- l’ipotesi (più “destabilizzante”) in cui non sia stato formalizzato alcun accordo scritto che preveda espressamente l’applicazione della legge italiana; in tal caso, in applicazione delle norme di diritto internazionale privato sulla legge regolatrice dei contratti (Regolamento UE n. 593/2008 – c.d. “Roma I”), il preponente potrebbe scoprire che la legge è quella del Paese nel quale l’agente svolge la propria attività.
È oramai nota a tante imprese la peculiarità della prassi francese in materia di indennità di fine rapporto.
L’art. L. 134-12 del “Code de Commerce” prevede che “in caso di cessazione dei propri rapporti con il preponente, l’agente commerciale ha diritto ad un’indennità compensativa in riparazione del pregiudizio subito”.
Per quantificare l’”indemnité de clientèle” (così viene comunemente denominata), non vi sono indicazioni nel “Code Civil” o nel “Code de Commerce”, e non esistono Accordi Economici Collettivi.
Da oltre 30 anni, si applica la giurisprudenza consolidata che riconosce all’agente normalmente diligente un’indennità pari a 2 anni di provvigioni, con facoltà del giudice di fissarne l’importo in misura inferiore o superiore alla luce delle circostanze specifiche del rapporto contrattuale (in primis la sua durata).
Accanto a questa giurisprudenza oramai granitica, la Corte di Cassazione francese è stata costretta, negli ultimi anni, ad operare importanti “revirements de jurisprudence” per conformarsi ai dettami comunitari.
Un periodo di prova non più a prova di “indemnité de clientèle”
Anche se non contemplato dalla Direttiva, è pacifico che le parti possano prevedere un periodo di prova.
Per anni la giurisprudenza francese aveva escluso il diritto all’indennità nel caso di risoluzione del contratto nel corso del periodo di prova.
In una causa che interessava un contratto con la previsione di un periodo di prova, la Suprema Corte francese ha sottoposto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea (CGUE) una questione pregiudiziale per accertare la legittimità del proprio consolidato orientamento giurisprudenziale sopra ricordato.
La CGUE (Sentenza del 19/04/2018) ha ribadito che alla luce delle finalità della Direttiva, deve essere esclusa qualsiasi interpretazione del suo articolo 17 che possa risolversi in un detrimento dell’agente.
Ha quindi affermato che la disciplina dell’indennità/del risarcimento si applica anche nel caso di cessazione del contratto intervenuta durante il periodo di prova contrattualmente pattuito.
La Corte di Cassazione si è prontamente adeguata e con Sentenza del 23/01/2019, ha statuito che la risoluzione del contratto dà diritto all’agente, nonostante qualsiasi clausola contraria, ad un’”indemnité de clientèle”, anche nel caso di risoluzione nel corso del periodo di prova, con una posizione diametralmente opposta rispetto all’orientamento storicamente assunto.
La nozione di agente: “trattare” entro i limiti
Un altro “revirement” ha interessato la nozione stessa di “agente” e l’ambito di applicazione della normativa.
L’art. L134-1 del “Code de Commerce” dispone che «l’agente commerciale è un mandatario che, quale lavoratore indipendente, senza essere vincolato da un contratto di prestazione di servizi, è incaricato, in maniera permanente di trattare ed eventualmente stipulare contratti di vendita, d’acquisto, di locazione o di prestazione di servizi, in nome e per conto di produttori, d’industriali, di commercianti o di altri agenti commerciali». Nel corso degli anni era emersa un’interpretazione restrittiva del termine “trattare”.
Per la Corte di Cassazione, l’attività associata al termine non poteva essere ridotta alla mera promozione di prodotti, né alla mera ricerca di clienti o ad un ruolo di
intermediario passivo, ma significava la facoltà offerta all’intermediario di modificare le clausole contrattuali inizialmente previste dal preponente, inclusi i prezzi e le condizioni di vendita.
Tale giurisprudenza portava in alcuni casi ad escludere la qualifica di “agente”.
La CGUE ha ritenuto che una siffatta interpretazione fosse in contrasto con la Direttiva in quanto i compiti principali dell’agente consistono nel procurare nuovi clienti al preponente e nello sviluppare gli affari con i clienti esistenti, e lo svolgimento di tali compiti può essere assicurato dall’agente mediante azioni di informazione e consulenza nonché discussioni, che fossero tali da favorire la conclusione dell’operazione di vendita delle merci per conto del preponente, senza che l’agente debba per forza disporre della facoltà di modificare i prezzi (Sentenza del 04/06/2020).
La Corte di Cassazione (Sentenza del 02/12/2020), preso atto della posizione comunitaria, affermava che deve oramai esser qualificato come agente commerciale, “il mandatario, un agente, sia esso una persona fisica o giuridica, che, quale lavoratore indipendente, senza essere vincolato da un contratto di prestazione di servizi, è incaricato, in maniera permanente di trattare ed eventualmente stipulare contratti di vendita, d’acquisto, di locazione o di prestazione di servizi, in nome e per conto di produttori, d’industriali, di commercianti o di altri agenti commerciali, pur non avendo il potere di modificare i prezzi di tali prodotti o servizi”. Il riconoscimento della qualifica di agente rimarrà comunque sempre oggetto ricorrente di controversie vista la posta in gioco (la protezione derivante dalla Direttiva 86/653) e quindi la necessità di distinguere, caso per caso, l’agente da altri intermediari (per esempio l’“apporteur d’affaires”).
Con Sentenza del 17/05/2023 la Corte di Cassazione ha ricordato che l’applicazione dello status di agente commerciale non dipende dalla volontà delle parti espressa nel contratto e dalla denominazione che hanno dato al rapporto contrattuale, ma “dalle condizioni nelle quali l’attività viene effettivamente svolta”.
Colpa grave e diritto all’ “indemnité de clientèle”: a volte è troppo tardi
Il terzo “revirement” riguarda l’esclusione del diritto all’”indemnité de clientèle” in caso di colpa grave.
L’art. L 134-12 del “Code de Commerce” dispone che “il risarcimento previsto dall’articolo L. 134-12 non è dovuto nei seguenti casi (…) la cessazione del contratto è provocata dalla colpa grave dell’agente commerciale”.
Per la CGUE (Sentenza del 28/10/ 2010), la Direttiva osta a che l’agente venga privato della sua indennità qualora il preponente dimostri l’esistenza di un inadempimento dell’agente, verificatosi nel periodo di tempo intercorso tra la notifica del recesso dal contratto mediante preavviso e la scadenza di quest’ultimo, che avrebbe potuto giustificare un recesso immediato dal contratto.
Nonostante questa presa di posizione netta, alcuni tribunali francesi insistevano nel ritenere che le violazioni gravi commesse dall’agente durante la vigenza del contratto, comprese quelle scoperte dal preponente dopo la cessazione di quest’ultimo, potessero essere tali da privare l’agente del proprio diritto all’indennità.
La Corte di Cassazione ha nuovamente dovuto rimboccarsi le maniche per rimodellare il diritto nazionale onde adeguarlo al progetto comunitario.
Con Sentenza del 16/11/2022, ha affermato che l’agente non può essere privato del suo diritto all’indennità nel caso in cui il grave inadempimento da lui commesso prima della cessazione del contratto, non sia stato menzionato nella lettera di risoluzione e sia stato scoperto dal preponente dopo la predetta lettera, perché in tal caso l’inadempimento non è la causa della risoluzione del rapporto.
Insomma, un cantiere che ancora oggi risulta in corso di evoluzione.
Avvocato Laurent Scarna – Avvocato del Foro di Milano – Avocat au Barreau de LYON
1 Febbraio 2024
La composizione negoziata della crisi d’impresa: caratteristiche e dati statistici
La composizione negoziata della crisi, nel sistema delineato dal Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza (CCII), rappresenta lo strumento principe per il risanamento dell’impresa in difficoltà, ma che mantiene un valore produttivo. Dopo le iniziali incertezze dovute alla novità dell’istituto, l’Osservatorio di Unioncamere ha registrato un rilevante incremento delle istanze presentate e di quelle concluse con esito positivo.
Caratteri e presupposti della composizione negoziata
La composizione negoziata della crisi d’impresa è uno dei nuovi istituti introdotti dal D.L. 118 del 2021 all’interno del CCII (D.lgs. 14 del 2019) ed è disciplinato dagli artt. 12 e seguenti del Codice, oltre che dal Decreto Dirigenziale del 28/9/2021, che ne regola i profili operativi.
L’istituto in commento ha un carattere spiccatamente privatistico. Infatti, comporta l’intervento dell’autorità giudiziaria soltanto nell’ipotesi in cui l’imprenditore intenda beneficiare delle misure protettive e consente all’imprenditore di mantenere la gestione dell’impresa seppur intraprendendo un percorso di superamento dello stato di crisi, con l’ausilio di un esperto, imparziale ed indipendente, nominato dal segretario generale della Camera di commercio territorialmente competente.
Per accedere alla composizione negoziata la legge indica tre presupposti:
- la natura di imprenditore commerciale o agricolo dell’istante, qualunque ne sia la dimensione o la qualità dell’impresa;
- la situazione di una probabilità di crisi o di insolvenza;
- la risanabilità dell’impresa.
Procedimento, misure protettive e misure premiali
La procedura viene avviata con l’istanza di nomina di un esperto indipendente da presentare alla Camera di Commercio competente, unitamente alla documentazione economico/finanziaria indicata dall’art. 17 del CCII (tra cui gli ultimi tre bilanci, un progetto di piano di risanamento e l’elenco dei creditori). L’esperto, innanzitutto, è chiamato a valutare l’effettiva possibilità di risanamento dell’impresa e, in caso positivo, avvia le trattative con i creditori, che deve condurre in modo serrato, per tentare di individuare una soluzione idonea al superamento della crisi. In tal caso le parti possono alternativamente: i) stipulare un contratto con uno o più creditori idoneo a garantire la continuità aziendale per almeno un biennio; ii) concludere una convenzione di moratoria ex art. 62 CCII; iii) concludere un accordo sottoscritto dall’imprenditore, dai creditori e dall’esperto. Se all’esito delle trattative non sia stato possibile concretizzare una delle precedenti soluzioni l’imprenditore potrà: a) predisporre un piano attestato di risanamento; b) richiedere l’omologazione di un accordo di ristrutturazione; c) proporre una domanda di concordato semplificato; d) accedere, se imprenditore commerciale, ad uno degli strumenti previsti dal CCII.
Uno degli strumenti di maggior rilievo previsti dal legislatore della composizione negoziata è rappresentato dalla possibilità per l’imprenditore in crisi di conseguire le misure protettive, sia quelle tipiche delle procedure concorsuali (ossia: il divieto per i creditori di promuovere o di proseguire individualmente procedure esecutive o cautelari, o di attivare la dichiarazione di apertura della liquidazione giudiziale), sia eventualmente misure atipiche, non essendone predeterminato il novero.
La domanda delle suddette misure segna l’ingresso nella composizione negoziata dell’autorità giudiziaria, cui spetta la decisione in merito alla loro concessione. Il legislatore riconosce all’imprenditore che accede alla composizione negoziata alcuni benefici di carattere fiscale. A titolo meramente esemplificativo, all’accettazione dell’esperto consegue la riduzione alla misura legale degli interessi sui debiti tributari; in ipotesi di stipula e pubblicazione dell’accordo tra impresa in crisi e creditori è prevista la concessione di un piano di rateazione sino a settantadue rate mensili delle imposte sul reddito.
Le statistiche della composizione negoziata
Dai dati resi pubblici da Unioncamere, al 15 settembre 2023 risultano 951 istanze di accesso alla procedura di cui 206 provenienti dalla regione Lombardia. Dopo un primo periodo di assestamento dovuto alla novità dell’istituto vi è stato un incremento delle istanze depositate (da una media di 15 mensili a 24, con picchi di 38 e 55 a marzo e maggio 2023).
Inoltre, l’aumento degli esiti positivi delle istanze conferma un utilizzo più consapevole dello strumento, a cui si ricorre in fase non troppo avanzata della crisi di impresa. In tal senso il tasso di successo della composizione negoziata (ossia il rapporto tra le istanze definite con esito favorevole ed il totale delle istanze archiviate) è cresciuto in termini significativi, passando da un iniziale 5,6% al 25,5% del trimestre 16 maggio – 15 agosto 2023.
Avvocato Riccardo Paglia e Avvocato Alfredo Talenti
30 Gennaio 2024
Conflitto di interessi per incongruità dei compensi degli amministratori di S.r.l. e invalidità della delibera assembleare
L’articolata sentenza del Tribunale di Bologna n. 2355 del 10 novembre 2023 ha dichiarato l’invalidità della delibera dell’assemblea dei soci di una s.r.l. che ha attribuito ai componenti del consiglio di amministrazione dei compensi incongrui ed inadeguati rispetto alla situazione economico-patrimoniale della società, alla sua dimensione e operatività, oltre che incompatibili con la natura ed il contenuto della demandata attività gestoria.
Il principio di diritto sotteso al ragionamento del Tribunale
La decisione in commento muove dal presupposto che solo in caso di accertata inadeguatezza e incongruità degli emolumenti attribuiti agli amministratori può essere prospettato un conflitto di interessi tra i soci il cui voto favorevole ha determinato l’approvazione della relativa delibera e la Società, essendo gli stessi soci di maggioranza anche gli amministratori che hanno tratto beneficio dalla stessa. Conflitto di interessi che può costituire motivo di impugnazione della delibera assembleare ex artt. 2377 e 2479 del Codice civile qualora vi sia un contrasto tra l’interesse del socio e l’interesse sociale, quest’ultimo inteso come l’insieme degli interessi comuni ai soci riconducibili al contratto di società.
Il caso concreto
Nella fattispecie sottoposta al vaglio del Tribunale di Bologna è stata disposta una CTU affinché valutasse la “compatibilità tra quanto deciso dalla maggioranza dei soci con la reale situazione economico-patrimoniale della società, la sua dimensione e operatività all’epoca dei fatti, nonché con la natura e contenuto della demandata attività gestoria”.
In particolare la delibera societaria impugnata aveva previsto l’attribuzione agli amministratori di un compenso non superiore a € 50.000,00, che avrebbe dovuto essere parametrato in funzione dell’utile lordo di esercizio ed anche in considerazione del raggiungimento degli obiettivi prefissati. In base a tale delibera erano poi stati riconosciuti emolumenti per gli anni 2019 e 2020 pari, rispettivamente, a € 51.116,00 e € 51.213,76.
Il consulente tecnico, oltre al pur ridotto superamento della soglia prefissata, rilevava che, contrariamente a quanto indicato nella delibera impugnata, non vi fosse stata in concreto alcuna parametrizzazione del compenso.
Particolarmente interessanti sono i criteri ed i parametri che il consulente tecnico ha utilizzato per valutare la congruità o meno del compenso, arrivando a ritenere che il compenso fosse incongruo e inadeguato, in quanto:
- sproporzionato rispetto al valore della produzione e al risultato operativo netto della società;
- idoneo a mettere a rischio la capacità della società di far fronte a spese impreviste;
- molto più elevato rispetto ai compensi riconosciuti da altre società equiparabili per attività e fatturato;
- sproporzionato rispetto all’attività effettivamente svolta dagli amministratori.
Risultano così utilmente delineati elementi concreti sulla base dei quali si potranno svolgere le necessarie verifiche e valutazioni in tutti quei casi in cui, come quello in esame, sia in dubbio la congruità e idoneità dei compensi degli amministratori. L’analisi del CTU si presta a divenire un utile strumento per i giuristi d’impresa, i commercialisti e gli stessi imprenditori nell’affrontare in concreto la questione durante la propria attività operativa.
La decisione
Il Tribunale ha condiviso il ragionamento del CTU nei termini sopra richiamati e ha ritenuto che tali accertamenti fossero di per sé sufficienti ad integrare gli estremi del denunciato conflitto di interessi, avendo l’Assemblea, con il voto decisivo dei soci di maggioranza, attribuito a questi ultimi, nella loro veste di amministratori, emolumenti incongrui ed irragionevoli e come tali pregiudizievoli per la società.
Conseguentemente il Tribunale ha dichiarato l’illegittimità della delibera impugnata.
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23 Gennaio 2024
Applicabilità delle Misure Protettive al Concordato Semplificato: il provvedimento del Tribunale di Padova
Il Tribunale di Padova, con una decisione datata 12 ottobre 2023, ha affrontato il tema dell’applicabilità delle misure protettive al concordato semplificato. Il giudice – all’esito di un articolato iter motivazionale – ha riconosciuto l’applicabilità delle misure e le ha concesse all’imprenditore che ne aveva fatto richiesta per un periodo di quattro mesi decorrenti dalla data di pubblicazione nel registro delle imprese del relativo ricorso.
Secondo il Tribunale di Padova la cessazione degli effetti delle misure protettive disposte durante la composizione negoziata della crisi, come previsto dall’art. 18 del Codice della Crisi e dell’Insolvenza (CCI) non implica che tali misure siano vincolate esclusivamente a questa fase. L’imprenditore può richiederle nuovamente attraverso la domanda di accesso agli strumenti di regolazione della crisi, che comprende anche il concordato semplificato. La possibilità di reiterare questa domanda rappresenta un’ulteriore e importante freccia all’arco dell’imprenditore in crisi e un supporto concreto verso l’auspicato superamento di quest’ultima, visto l’ampio spettro coperto da tali misure che, come noto, include la sospensione di azioni esecutive nei confronti del soggetto in crisi.
Dibattito giurisprudenziale sull’applicabilità delle misure protettive al concordato semplificato
In merito all’applicabilità delle misure protettive ex artt. 54 e 55 CCII al concordato semplificato si sono formati orientamenti giurisprudenziali contrastanti.
Una prima tesi, minoritaria, esclude l’applicabilità delle misure protettive al concordato semplificato, in ragione della mancanza di un’esplicita previsione normativa che riconosca tale diritto all’imprenditore istante. Invero il concordato semplificato non è richiamato dall’art. 54 comma 1 CCII, e viceversa, l’art. 25 sexies CCII non richiama gli artt. 54 e 55 CCII, dando luogo ad una lacuna normativa che non può essere colmata analogicamente, data la peculiarità del concordato semplificato, la cui disciplina, peraltro, sarebbe incompatibile con la funzione delle misure protettive (in tal senso si esprimono le pronunce del Tribunale di Torino del 25 novembre 2022 e del Tribunale di Avellino del 23 marzo 2023,).
Un secondo orientamento, maggioritario in giurisprudenza, ritiene invece che le misure protettive siano applicabili al concordato semplificato. Infatti, nonostante manchi un’espressa previsione di legge, il concordato semplificato può essere ricondotto alla nozione di strumenti di regolazione della crisi e dell’insolvenza, ai quali sono applicabili le misure degli artt. 54 e 55 CCII (nei termini che precedono si sono pronunciati il Tribunale di Milano del 16 settembre 2022, Tribunale di Roma del 21 luglio 2022, Tribunale di Bergamo del 12 gennaio 2022 ed il Tribunale di Lagonegro del 2 febbraio 2023).
La mancata menzione degli artt. 54 e 55 CCII nell’art. 25 sexies CCII non esclude, quindi, l’applicazione delle misure protettive al concordato semplificato. L’art. 25 sexies CCII, infatti, richiama espressamente altri articoli, stabilendo che gli effetti di tali norme si producano con la pubblicazione del ricorso. La cessazione degli effetti delle misure protettive durante la composizione negoziata della crisi non impedisce la loro riproposizione attraverso una specifica domanda di accesso agli strumenti di regolazione della crisi, conformemente all’art. 54 comma 2 CCII.
Dal punto di vista sostanziale, non si ravvisa, secondo il Tribunale di Padova, un’incompatibilità tra le misure protettive e la disciplina del concordato semplificato. Quest’ultimo, infatti, non prevede trattative da tutelare attraverso le misure protettive, mentre oggetto di tutela sarebbe soltanto il buon esito dello strumento di regolazione, salvaguardato dalle misure cautelari. La definizione delle misure protettive previste dall’art. 2 lett. p CCII è molto ampia e comprende le azioni finalizzate al buon esito di qualsiasi iniziativa meritevole di tutela, incluso il concordato semplificato.
Procedimento per la richiesta delle misure protettive nel concordato semplificato
L’imprenditore può avviare la composizione negoziata della crisi, richiedendo l’adozione di misure protettive ai sensi degli articoli 18 e 19 del CCII. Al termine dell’incarico, l’esperto comunica la propria relazione al giudice, il quale dispone la cessazione degli effetti delle misure concesse nella composizione negoziata della crisi. Nel caso in cui, all’esito delle trattative, la soluzione individuata sia il concordato semplificato (art. 23 comma 2, lett. c, CCII), l’imprenditore può richiedere, ai sensi dell’art. 40 CCII, l’accesso a questo strumento di regolazione della crisi mediante ricorso con cui si chiede l’omologazione della proposta secondo l’art. 25 sexies comma 2 CCII, immediatamente produttivo degli effetti di cui agli artt. 6, 46, 94 e 96 CCII. La domanda di accesso (art. 40 CCII) in forma di ricorso potrà contenere anche la domanda delle misure protettive previste dagli artt. 54 e 55 CCII che acquisteranno efficacia dal momento della pubblicazione del ricorso, ma per l’effetto della domanda (pubblicata).
Il caso concreto
Sulla base delle considerazioni che precedono, il Tribunale di Padova ha concesso le misure di protezione all’imprenditore per quattro mesi, nel corso dei quali i creditori fino ad allora procedenti in via esecutiva, e tutti gli altri eventuali ulteriori creditori, non possono acquisire diritti di prelazione, se non concordati con l’imprenditore, né possono iniziare o proseguire azioni esecutive e cautelari sul suo patrimonio o sui beni e sui diritti con i quali viene esercitata l’attività di impresa, né possono levare protesti.
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16 Gennaio 2024
I comportamenti extralavorativi del dipendente rilevano ai fini disciplinari
La Corte di legittimità, con la sentenza n. 35066 del 14 dicembre 2023, ha riconosciuto rilevanza a fini disciplinari a comportamenti extra-lavorativi, configuranti “azioni moleste” di un dipendente nei confronti di due colleghe, confermando la pronuncia della Corte di Appello di Milano che aveva riconosciuto la giusta causa del licenziamento fondato sulle suddette condotte.
Il principio di diritto
La decisione in commento, con riferimento alla rilevanza disciplinare di contegni adottati al di fuori dell’ambito lavorativo, si pone nel solco del consolidato orientamento secondo il quale il lavoratore debba comunque astenersi dal porre in essere condotte che, per la natura e per le possibili conseguenze, risultino in contrasto con gli obblighi connessi al suo inserimento nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa, dovendosi integrare l’art. 2105 c.c. con gli artt. 1175 e 1375 c.c., che impongono l’osservanza dei doveri di correttezza e di buona fede anche nei comportamenti extra lavorativi, sì da non danneggiare il datore di lavoro.
In proposito, il datore di lavoro, per provare l’incidenza lesiva del vincolo fiduciario del comportamento extralavorativo del dipendente, può limitarsi alla specifica deduzione del fatto in sé, qualora lo stesso abbia un riflesso, anche solo potenziale ma oggettivo, sulla funzionalità del rapporto, compromettendo le aspettative di un futuro puntuale adempimento.
Il caso concreto
Nella fattispecie concreta, secondo la Cassazione, la Corte di merito ha fatto corretta applicazione del precedente principio di diritto ritenendo irrimediabilmente leso il vincolo fiduciario tra datore di lavoro e dipendente, in ragione delle condotte extra lavorative di quest’ultimo, che “rendendosi oltre modo petulante e per giunta violento in pregiudizio di altre due dipendenti, aveva mostrato di essere immune da limiti e discipline – una connotazione assai grave per colui che esprimeva il ruolo di team leader – nella gestione dei rapporti extraprofessionali coi colleghi anche nei rapporti di svago”.
Per tale ragione la corte territoriale – secondo una valutazione di merito insindacabile in sede di legittimità – ha ritenuto le condotte extra-lavorative contestate idonee a causare la definitiva perdita di fiducia del datore di lavoro nei confronti del sottoposto.
Ciò posto, la Corte di legittimità ha rigettato il ricorso del dipendente e confermato la sentenza impugnata.
22 Dicembre 2023
Antiriciclaggio: sospeso l’obbligo di comunicazione del titolare effettivo
Il TAR Lazio, con l’ordinanza n. 8083 del 7 dicembre 2023, ha sospeso l’entrata in vigore del D.M. 29 settembre 2023 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, che imponeva la comunicazione dei titolari effettivi di imprese dotate di personalità giuridica, persone giuridiche private, trust e istituti giuridici affini entro l’11 dicembre 2023. Tale decisione è stata presa all’esito dell’istanza cautelare di sospensione dell’operatività del Registro presentata da Assoservizi fiduciari nell’interesse delle 118 associate, sostenuta anche da un intervento ad adiuvandum di Aletti Fiduciaria.
Secondo la ricorrente, le società fiduciarie sono già soggette a un rigoroso e approfondito regime di controllo e monitoraggio da parte delle autorità pubbliche di vigilanza. Tale regime, già attuato senza mettere a rischio i titolari effettivi, assicura il pieno raggiungimento degli obiettivi di trasparenza e contrasto al terrorismo e riciclaggio di denaro.
La pronuncia del TAR Lazio
La IV Sezione del Tar ha accolto la domanda di sospensiva proposta in via cautelare dal ricorrente riconoscendo sussistenti i profili del fumus boni iuris e del periculum in mora.
Sotto il primo profilo, Il TAR considera che le plurime e articolate censure formulate dalla parte ricorrente coinvolgano anche questioni di compatibilità eurounitaria e richiedano un approfondimento in sede di merito.
Per il TAR sussiste anche il periculum in mora, tenuto conto della rilevanza delle situazioni giuridiche suscettibili di essere incise, in modo irreparabile, dall’imminente scadenza del termine per l’adempimento degli obblighi di comunicazione.
Per tali motivi il TAR ha ritenuto, quindi, meritevole di tutela l’interesse della parte ricorrente al mantenimento della res adhuc integra sino alla definizione del giudizio nel merito.
L’oggetto della pronuncia di sospensiva
Nello specifico, il Tar Lazio ha sospeso l’efficacia dei seguenti atti:
• Il D.M. del 29 settembre 2023 riguardante l’attestazione di operatività del sistema di comunicazione dei dati, la cui pubblicazione in Gazzetta Ufficiale ha dichiarato operativo il sistema di comunicazione dei dati e delle informazioni sulla titolarità effettiva.
• Il Manuale operativo Unioncamere per l’invio telematico delle comunicazioni del titolare effettivo agli uffici del Registro delle imprese.
• Tutti gli atti e i provvedimenti ad essi presupposti, conseguenziali e/o comunque connessi.
Cosa comporta la sospensione
In assenza di interventi normativi risolutivi dei motivi del ricorso, il registro non sarà quindi operativo almeno sino alla conclusione del giudizio di merito, per il quale il TAR Lazio ha fissato la prima udienza il 27 marzo 2024.
14 Dicembre 2023
Contratti con rinnovo automatico a pagamento e diritto del consumatore al “doppio recesso” al vaglio della Corte di Giustizia Europea
La Corte di Giustizia UE, con la Sentenza Sofatutor del 5/10/2023, resa all’esito della causa n. 565/22, affronta il tema del diritto di recesso del consumatore in ipotesi di contratto concluso a distanza, con un primo periodo di prova gratuito e successivo rinnovo automatico a pagamento.
La fattispecie e la questione interpretativa oggetto della pronuncia della Corte di Giustizia
Il caso sottoposto al vaglio della Corte europea riguarda la società austriaca Sofatutor, che gestisce piattaforme online destinate a studenti delle scuole secondarie. Le condizioni generali di contratto prevedono un primo periodo di prova gratuito della durata di 30 giorni e, alla scadenza, il rinnovo automatico dell’abbonamento per una durata determinata.
Il giudice del rinvio pone la questione se – a fronte di un rapporto strutturato nei termini poco sopra esposti – al consumatore sia garantito il diritto di recesso dal contratto per una sola volta (da esercitarsi ex art. 9 par. 1 della direttiva UE 2011/83 entro 14 giorni dalla conclusione del contratto) ovvero se gli sia riconosciuto un secondo diritto di recesso dopo il rinnovo del contratto divenuto poi oneroso.
La decisione della Corte europea
La sentenza in commento afferma che il consumatore – in linea di principio – ha diritto a recedere dal contratto per una sola volta, nel termine di 14 giorni dalla conclusione dell’accordo. La Corte, peraltro, si sofferma sull’importanza dell’informativa precontrattuale in merito al diritto di recesso, che deve essere chiara e comprensibile, deve indicare le condizioni, i termini e le procedure di esercizio. Deve inoltre essere messo a disposizione del consumatore il modulo standard per l’esercizio del diritto di recesso.
Ciò chiarito in termini generali, la Corte osserva che, prima della conclusione di un contratto a distanza, il professionista è tenuto, altresì, a fornire al consumatore una informazione chiara e comprensibile del prezzo totale dei servizi che ne sono oggetto, in particolare in una ipotesi, come quella oggetto del caso in esame, dove il contratto diviene oneroso solo in seguito ad un primo rinnovo.
Secondo la Corte di Giustizia, solo qualora non vi sia stata una comunicazione trasparente sul prezzo totale dei servizi oggetto di accordo, va riconosciuto al consumatore un nuovo diritto di recesso dopo il periodo di prova gratuito, ai sensi dell’art. 9 par. 1 della direttiva UE 2011/83.
Pertanto, spetterà al giudice del rinvio esaminare se un’informazione chiara, comprensibile ed esplicita sul prezzo totale dei servizi in oggetto sia stata comunicata dal professionista al consumatore o meno: in caso positivo al consumatore è garantito il diritto di recede per una sola volta, viceversa, il consumatore disporrà di un nuovo diritto di recesso in seguito al rinnovo e trasformazione del contratto a pagamento.
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17 Novembre 2023
Diritti sindacali dei lavoratori somministrati: Interpello del Ministero del Lavoro
Il Ministero del Lavoro ha recentemente fornito importanti chiarimenti sui diritti sindacali dei lavoratori somministrati, in risposta all’istanza di interpello presentata da UGL Agroalimentare.
Nell’interpello n. 1/23 del 15.09.2023, il Ministero del Lavoro afferma che, durante il periodo di missione, la normativa di cui al CCNL dell’agenzia di somministrazione deve essere integrata con le disposizioni contenute nel Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro (CCNL) dell’utilizzatore.
Cosa si intende per rapporto di somministrazione
Il Ministero parte dalla definizione di rapporto di somministrazione che coinvolge tre attori principali: l’agenzia di somministrazione, il lavoratore somministrato e l’impresa utilizzatrice. Questi soggetti sono assoggettati a due diversi vincoli contrattuali: il contratto commerciale tra utilizzatore e somministratore e il contratto di lavoro individuale tra l’agenzia di somministrazione e il lavoratore.
Sebbene formalmente il datore di lavoro del lavoratore somministrato sia l’agenzia, durante il periodo di missione la prestazione lavorativa si svolge nell’interesse dell’utilizzatore, sotto il suo controllo e direzione.
La struttura contrattuale della somministrazione di lavoro comporta una specifica ripartizione delle responsabilità e degli obblighi relativi allo svolgimento del rapporto di lavoro, in funzione della scissione tra la titolarità giuridica del rapporto e l’effettivo utilizzatore della prestazione.
Quale Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro si applica ai lavoratori somministrati
Per garantire uniformità nelle condizioni di lavoro per tutti i dipendenti, il Ministero sostiene che durante il periodo della missione, il Contratto Collettivo applicato dall’agenzia di somministrazione debba essere integrato con quello dell’utilizzatore.
Cosa avviene per i diritti sindacali dei lavoratori somministrati
Questa integrazione non riguarda solo gli aspetti contrattuali, ma si estende anche ai diritti sindacali dei lavoratori somministrati. Durante la missione, il lavoratore somministrato ha infatti il diritto di esercitare, oltre ai diritti di libertà e di attività sindacale previsti dallo Statuto dei lavoratori, come espressamente statuito dall’art. 36 del D. Lgs. n. 81/2015, ivi compreso il diritto di partecipare alle assemblee del personale dipendente dell’impresa utilizzatrice, altresì i diritti sindacali riconosciuti dal CCNL applicato da quest’ultima. L’obiettivo è quello di assicurare l’effettiva fruizione di tali diritti all’interno del contesto lavorativo ove il lavoratore somministrato risulta in concreto inserito.
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8 Novembre 2023
La clausola Ex Works di per sé determina la giurisdizione del luogo dove ha sede il venditore
Secondo le Sezioni Unite la clausola Ex Works di per sé individua anche il luogo di consegna della merce ed è pertanto in grado di radicare la giurisdizione presso il giudice del luogo ove ha sede il venditore.
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 11346 del 2/5/2023 (rel. Criscuolo), sono state chiamate a pronunziarsi in merito all’effetto prodotto, rispetto alla competenza giurisdizionale, dall’inserimento in un contratto di compravendita internazionale di beni mobili di una clausola Incoterms Ex Works.
Il caso oggetto di giudizio e le pronunce di merito
Una società francese si opponeva al decreto ingiuntivo emanato dal Tribunale di Brescia in favore di una società con sede in Italia avente ad oggetto il pagamento di somme quali corrispettivi per la fornitura di bottiglie di acqua minerale.
La società opponente eccepiva, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello francese e, in particolare, del Tribunale di Versailles, dovendo essere effettuata la consegna della merce presso la sua sede sita in Francia.
La fornitrice italiana contestava l’eccezione affermando che, in virtù della clausola Incoterms Ex Works concordata tra le parti, la consegna della merce sarebbe dovuta avvenire presso il suo stabilimento sito in Italia, con quanto ne consegue in termini di giurisdizione.
Sia il Tribunale, sia la Corte di Appello di Brescia dichiaravano il difetto della giurisdizione italiana, in favore di quella francese. In particolare, il giudice di seconde cure ha sostenuto che l’inserimento della clausola Incoterms Ex Worksnella documentazione dei rapporti tra le parti non implicasse un automatico spostamento del luogo materiale di consegna delle merci, ove non accompagnata da elementi che confermassero tale scelta con chiarezza: in mancanza di tali riscontri, l’inserimento di tale clausola avrebbe prodotto come unico effetto il solo trasferimento del rischio di perimento della merce. Il tutto anche ai fini del radicamento della competenza giurisdizionale individuata presso la sede dell’acquirente.
La decisione delle Sezioni Unite
Con il primo motivo di ricorso in Cassazione la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 comma 1, lett. b) del Reg. UE 1215/2012 e dell’art. 1362 c.c., per avere la Corte di Appello ritenuto insussistente la giurisdizione italiana.
La causa viene rimessa alle Sezioni Unite della Suprema Corte.
Dopo aver dato atto degli orientamenti di legittimità rappresentati dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite, la Corte affronta il quesito sottopostole prendendo le mosse dal testo dell’art. 7, par. 1, lett. a) e b) del Reg. UE n. 1215 del 2012 (che individuano la giurisdizione in materia di compravendita di beni nel luogo di consegna in base al contratto) e dal contenuto della clausola Ex Works, come interpretata dalla Corte di Giustizia UE (tra le diverse prese in considerazioni in particolare sentenza Electrosteel del 9/6/2011 resa nella Causa C 87/10).
All’esito della disamina della suddetta normativa e della sua interpretazione giurisprudenziale la Cassazione riconosce che la clausola Incoterms Ex Works, una volta inserita nel contratto condiviso tra le parti, è idonea – di per sé – ad individuare anche il luogo di consegna della merce, salvo che dal contratto risultino diversi ed ulteriori elementi che inducano a ritenere che i contraenti abbiano voluto un diverso luogo di consegna.
L’applicazione di tale principio (diametralmente opposto a quanto affermato nella sentenza impugnata) al caso di specie comporta l’individuazione del luogo di consegna della merce in Italia, con conseguente giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana.
Pertanto, la sentenza impugnata della Corte di Appello di Brescia viene cassata con rinvio.
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17 Ottobre 2023
Antiriciclaggio: è operativo il registro dei titolari effettivi
Entro l’11 dicembre 2023 i soggetti obbligati devono comunicare alla Camera di Commercio territorialmente competente i dati e le informazioni sulla titolarità effettiva delle imprese, delle altre persone giuridiche private e dei trust.
È quanto previsto dal D.M. 29 settembre 2023 del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale il 9 ottobre 2023, che dà il via all’operatività del sistema di comunicazione dei dati e delle informazioni sulla titolarità effettiva.
Dalla pubblicazione del decreto decorrono i 60 giorni entro cui i soggetti obbligati devono alimentare il nuovo registro.
Il nostro Paese si adegua così alle disposizioni europee, a distanza di oltre sei anni dal recepimento della Direttiva Antiriciclaggio e dopo una messa in mora formale da parte della Commissione Europea.
Si stima che siano circa due milioni i soggetti interessati.
La normativa in pillole:
- I soggetti obbligati
Gli amministratori di società, i fondatori, se in vita delle fondazioni, i rappresentanti/amministratori delle altre persone giuridiche private, i fiduciari dei trust e degli istituti giuridici affini devono comunicare i dati e le informazioni sulla titolarità effettiva dell’ente all’ufficio del registro delle imprese della Camera di commercio territorialmente competente. I dati vanno forniti in via telematica tramite autodichiarazione utilizzando il modello di comunicazione unica d’impresa.
- Come funziona il Registro
Il Registro dei titolari effettivi è istituito presso il Registro delle Imprese delle Camere di Commercio ed è organizzato in due sezioni:
-una autonoma per le imprese e le persone giuridiche private;
– una speciale per i trust produttivi di effetti giuridici rilevanti ai fini fiscali e gli istituti giuridici affini, stabiliti o residenti sul territorio italiano.
L’operatività del sistema comporterà ulteriori oneri periodici e connesse responsabilità per gli amministratori. Essi saranno tenuti a dichiarare il titolare effettivo per le nuove società costituite dopo il 9 ottobre2023 entro 30 giorni dall’iscrizione al registro delle imprese e, nello stesso termine decorrente dal compimento dell’atto di volta in volta rilevante, a comunicare eventuali variazioni dei dati relativi alla titolarità effettiva. In ogni caso, con cadenza annualedall’ultima comunicazione, i soggetti obbligati devono confermare i dati e le informazioni trasmesse. Per le imprese dotate di personalità giuridica la conferma può avvenire con il deposito del bilancio.
- Accesso ai dati e profili Privacy
Con la sentenza del 22 novembre 2022, cause riunite n. C-37/20 e C-601/20, la Corte di Giustizia UE ha dichiarato invalida la disposizione della direttiva antiriciclaggio, secondo cui le informazioni sulla titolarità effettiva delle società costituite all’interno degli Stati membri devono essere accessibili al pubblico, ritenendo che l’ingerenza risultante da tale misura, non è limitata allo stretto necessario e non è proporzionata rispetto all’obiettivo perseguito. Le modalità di accesso ai dati e alle informazioni come previste dal Registro dei Titolari effettivi italiano sono rispettose delle pronunzie della Corte di Giustizia in tema di privacy in quanto richiedono obbligatoriamente la registrazione e consentono di visualizzare solo i dati necessari per gli adempimenti antiriciclaggio, prevedendo la possibilità di opposizione motivata da parte degli interessati.
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6 Ottobre 2023
Sovraindebitamento: accordo di ristrutturazione dei debiti, controllo giudiziale e impugnazioni esperibili
La proposta di accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento è soggetta, innanzitutto, al vaglio di ammissibilità da parte del Tribunale e, quindi, al voto dei creditori e alla successiva omologazione della competente autorità giudiziaria.
Il decreto di omologazione è impugnabile dai creditori mediante reclamo, al fine di contestare la carenza dei presupposti di ammissibilità dell’accordo stesso.
Una recente decisione della Corte di Cassazione ha chiarito che l’accoglimento del reclamo non esclude la possibilità per il debitore di proporre ricorso in Cassazione contro tale provvedimento. Si potrà, quindi, sottoporre alla Suprema corte la verifica della sussistenza dei presupposti per l’ammissibilità dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento.
La recente decisione della Cassazione
Con l’ordinanza n. 22797 del 27/7/2023, la Corte di Cassazione si è, infatti, pronunziata in merito ad un ricorso avverso il provvedimento con il quale il Tribunale aveva accolto il reclamo proposto da un creditore ipotecario nei confronti del decreto di omologazione dell’accordo per carenza dei presupposti di ammissibilità ex art. 7 L. n. 3 del 2012, stante la mancanza di adeguate garanzie di adempimento e a fronte della proposta di dilazione trentennale del pagamento, dichiarando inammissibile l’accordo.
I presupposti per l’ammissione della proposta di accordo
L’art. 7 della Legge n. 3 del 2012 prevede, infatti, che il debitore in stato di sovraindebitamento possa proporre ai creditori, con l’ausilio degli organismi di composizione della crisi, un accordo di ristrutturazione dei debiti e di soddisfazione dei crediti sulla base di un piano che rispetti i seguenti presupposti (il cui vaglio è rimesso al Tribunale del luogo di residenza del debitore):
- preveda scadenze e modalità di pagamento dei creditori, anche suddivisi in classi;
- indichi le eventuali garanzie rilasciate per l’adempimento dei debiti;
- indichi le modalità per l’eventuale liquidazione dei beni;
- per i crediti muniti di privilegio, pegno o ipoteca possa prevedere che non siano soddisfatti integralmente, sempre che ne sia assicurato il pagamento in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale sul ricavato in caso di liquidazione, avuto riguardo al valore di mercato attribuibile ai beni o ai diritti sui quali insiste la causa di prelazione, come attestato dagli organismi di composizione della crisi.
L’ammissibilità del ricorso
Nell’ordinanza di fine luglio 2023, la Suprema Corte ha, innanzitutto, affrontato il profilo processuale della lamentata inammissibilità del ricorso, sollevata dalla controricorrente, per asserita non impugnabilità in Cassazione ex art. 111 comma 7 Cost. del provvedimento di accoglimento del reclamo proposto contro l’omologazione dell’accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento.
La Cassazione ha rigettato il suddetto motivo di ricorso affermando che “E’ ammissibile il ricorso per Cassazione avverso il provvedimento del Tribunale, in composizione collegiale, di accoglimento del reclamo proposto contro il provvedimento di omologazione, da parte del giudice monocratico, di un accordo di composizione della crisi da sovraindebitamento proposto ai sensi della L. n. 3 del 2012, artt. 10 e ss. (e succ. mod.), trattandosi di provvedimento avente carattere decisorio e definitivo, tenuto conto della natura contenziosa del procedimento e della sua idoneità ad incidere su diritti soggettivi, regolamentando in modo incontrovertibile la dedotta situazione di sovraindebitamento”.
Il rigetto nel merito
Per converso, la Corte di legittimità, nel merito della decisione, ha rigettato il ricorso del debitore, confermando l’inammissibilità dell’accordo che prevedeva la falcidia dei crediti e la dilazione di pagamento trentennale, anche del creditore privilegiato. In particolare, la Cassazione ha riconosciuto che il creditore ipotecario era stato illegittimamente escluso dal voto e dal computo ai fini del raggiungimento della maggioranza con riguardo alla parte di credito oggetto di dilazione di pagamento, da considerarsi, invece, come ipotesi di “soddisfazione non integrale” e, quindi, suscettibile di ammissione al voto.
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27 Settembre 2023
Intestazione fiduciaria delle quote di Srl e rimedi esperibili
Nella recente sentenza n. 5496/2023 del 3 luglio 2023, il Tribunale di Milano ha fornito importanti chiarimenti riguardo all’intestazione fiduciaria delle quote di partecipazione in una società a responsabilità limitata (Srl) e agli strumenti di tutela attivabili dal fiduciante per esserne riconosciuto effettivo titolare.
È stato, infatti, stabilito che il trasferimento delle quote per patto fiduciario implica un effettivo passaggio di proprietà delle quote stesse, accompagnato dall’obbligo di restituirle al fiduciante in futuro. È proprio la validità ed efficacia del negozio iniziale di trasferimento che distingue l’ipotesi di intestazione fiduciaria che costituisce interposizione reale di persona, dal caso della simulazione in cui si realizza una manifestazione negoziale difforme da quella realmente voluta e quindi un’interposizione fittizia di persona.
Ne consegue che, in caso di intestazione fiduciaria, l’unico modo per recuperare effettivamente la titolarità delle quote, quando siano soddisfatti i requisiti necessari, sia avviare un’azione costitutiva, ex art. 2932 del Codice civile, per ottenere una sentenza che sostituisca il contratto di ritrasferimento non concluso, non essendo invece sufficiente un’azione di mero accertamento.
Fino a quando la sentenza di ritrasferimento formale non sia stata emessa, il fiduciante non può legittimamente dichiararsi proprietario delle quote.
Fino a quel momento è solo il fiduciario ad essere titolare di qualsiasi diritto e/o dovere relativo alle quote fiduciariamente intestate: solo il fiduciario potrà, quindi, esercitare i diritti non solo di voto ma anche patrimoniali ed amministrativi derivanti dalla posizione di socio.
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15 Settembre 2023
Dal 1° settembre sono in vigore i nuovi limiti e criteri di redazione degli atti giudiziari civili
Con il decreto n. 110 del 7 agosto 2023 vengono introdotti, per la prima volta nel nostro ordinamento, specifici criteri di redazione e limiti dimensionali degli atti processuali civili, applicabili ai procedimenti avviati dopo il 1° settembre 2023.
Ambito di applicazione
I criteri di redazione degli atti processuali delle parti, previsti dall’art. 2 del decreto in commento e le tecniche redazionali di cui all’art. 6 si riferiscono a tutti i procedimenti giudiziari, mentre i limiti dimensionali indicati dall’art. 3 sono applicabili ai soli atti relativi a cause di valore inferiore ad € 500.000,00.
L’innalzamento dei limiti dimensionali rispetto allo schema ministeriale originario
Risulta certamente significativa la variazione (in aumento) dei limiti inizialmente previsti dallo schema di decreto, che portano:
- da 50.000 ad 80.000 caratteri – corrispondenti a circa 40 pagine – il tetto dei caratteri ammesso per gli atti introduttivi dei giudizi, comparsa di costituzione e comparse e note conclusionali;
- da 25.000 a 50.000 caratteri – corrispondenti a circa 26 pagine – per memorie, repliche e tutti gli altri atti endoprocessuali;
- da 4.000 a 10.000 caratteri – corrispondenti a circa 5 pagine – per le note scritte in sostituzione dell’udienza.
Si tratta di innalzamenti certamente apprezzabili nel senso di evitare una eccessiva compressione del diritto di difesa delle parti.
I provvedimenti del Giudice
Anche per quanto riguarda i provvedimenti dei giudici, l’articolo 7 stabilisce che devono essere redatti “in modo chiaro e sintetico,” seguendo le stesse regole già previste per gli avvocati. Tuttavia, la normativa non fornisce un riferimento specifico riguardo alle dimensioni degli atti e dei provvedimenti giudiziali. Si stabilisce piuttosto che esse debbano essere adeguate alla complessità della controversia, tenendo conto della tipologia, del valore, del numero delle parti coinvolte e della natura degli interessi in gioco.
La violazione dei limiti dimensionali e dei criteri di redazione non comporta invalidità dell’atto
Il mancato rispetto dei criteri e limiti di redazione degli atti previsto dall’art. 46 ultimo comma delle disposizioni di attuazione del codice di rito, non incide sulla validità dell’atto. La violazione potrà essere valutata dal giudice ai fini della decisione sulle spese di lite. In quali termini, dipenderà dall’applicazione che ne farà la giurisprudenza.
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9 Agosto 2023
Opzione put e divieto di patto leonino nelle società di capitali
Nella recente sentenza dell’8 maggio 2023 il Tribunale di Milano è tornato ad occuparsi della validità ed efficacia di un’opzione put a prezzo preconcordato relativa a quote di una s.r.l. alla luce del divieto di patto leonino ex art. 2265 c.c.
Divieto di patto leonino: applicabilità estesa alle società di capitali
Ricordato che tale divieto assume rilevanza anche nel settore delle società di capitali ed anche in relazione a patti parasociali essendo connaturato al rapporto sociale per il quale “la legge ha imposto non solo la costituzione di un patrimonio sociale ma anche la formazione ad opera di tutti i soci, in modo che tutti i membri della compagine siano partecipi del rischio di impresa al fine di garantire, nell’interesse generale, un esercizio avveduto e corretto dei relativi poteri”, i Giudici sottolineano che “una diversa regolamentazione, tale da escludere del tutto un socio dagli utili o dalle perdite, finirebbe per contrastare con il generale interesse alla corretta amministrazione delle società, inducendo il socio a disinteressarsi della proficua gestione (anche intesa con riguardo all’esercizio dei suoi diritti amministrativi) e non prodigarsi per l’impresa, quando non, addirittura, a compiere attività avventate o non corrette”.
È stato ribadito che per superare positivamente il vaglio di meritevolezza dei contratti atipici ex art. 1322 c.c. e non ricadere nel divieto ex art. 2265 c.c. in un’opzione put a prezzo preconcordato l’esclusione dalle perdite non deve essere i) strutturalmente assoluta e costante, né ii) tale da integrare la funzione essenziale, o causa concreta, con riguardo al complessivo regolamento negoziale.
Cosa si intende per “perdita” nel caso di società di capitali
Particolarmente interessante è il passaggio della motivazione della Sentenza sul concetto di “perdita” ai fini del divieto di patto leonino nell’ambito di società di capitali che viene:
– ricondotta alle SOLE PERDITE DI ESERCIZIO CAPACI DI INTACCARE IL CAPITALE SOCIALE PER OLTRE UN TERZO, o addirittura di farlo scendere sotto il minimo legale, ritenendosi invece IRRILEVANTI LE PERDITE CHE NON INTACCANO IL CAPITALE SOCIALE E QUELLE CHE LO INTACCANO PER MENO DI UN TERZO;
– distinta dal VALORE DELLA PARTECIPAZIONE, che rappresenta l’aspetto economico della partecipazione e deriva dalla rappresentazione contabile della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della Società e pertanto è un elemento del tutto mediato e non diretto, frutto di metodi di valutazione patrimoniali, reddituali e misti;
– distinta dal PREZZO DELLA CESSIONE DELLA PARTECIPAZIONE, perché l’oggetto della compravendita della partecipazione è la partecipazione stessa, rispetto alla quale il patrimonio sociale è oggetto mediato di cui è invece titolare la società.
Alla luce di queste qualificazioni e distinguo, il Tribunale conclude che “si ha esclusione dalle perdite del socio di società di capitali quando, per statuto o per patto parasociale, il socio è in grado, mantenendo la stessa partecipazione, di scaricare il relativo costo su altri soci”.
Quando l’esclusione dalle perdite può dirsi continuativa ed assoluta
Così chiarito cosa si intenda per perdite ed esclusione dalle stesse, per stabilire se tale esclusione sia effettivamente continuativa ed assoluta (e quindi sanzionata con la nullità ex art. 2265 c.c.) rileva l’aspetto temporale: può logicamente sussistere solo se il patto sia stato adottato FIN DALLA COSTITUZIONE DEL RAPPORTO SOCIALE di modo da garantire al socio “l’esenzione per tutta la sua durata dall’alea tipica dell’investimento nella società in modo tale da alterare stabilmente la ripartizione del rischio di impresa fra i soci”. Viceversa “La pattuizione dell’opzione di vendita successiva contenuta in un contratto di compravendita fra soci si risolve, invece, in una comune vicenda circolatoria della partecipazione esterna al contratto sociale e inidonea ad alterarne la causa”.
Il caso oggetto della pronuncia del Tribunale di Milano
Nel caso oggetto della pronuncia in esame, l’accordo per l’opzione put era stato stipulato due anni dopo l’ingresso del socio nella compagine sociale e prevedeva che l’esercizio di tale opzione potesse essere esercitato a decorrere da un preciso momento temporale e al ricorrere di alcuni specifici eventi. Pertanto, il Tribunale, rilevato che il socio per anni e fino all’esercizio dell’opzione ha esercitato i diritti derivanti dalla qualità di socio nonché è stato soggetto ai rischi delle perdite derivanti dalla partecipazione sociale, ha ritenuto che non ricorresse la situazione dell’esclusione assoluta e costante dalle perdite o dagli utili, necessaria per l’alterazione in concreto della causa societatis, concludendo per la validità del patto d’opzione put a prezzo preconcordato.
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1 Agosto 2023
La fideiussione e il contratto autonomo di garanzia
Nella prassi bancaria, allo scopo di ottenere finanziamenti per le aziende, è spesso richiesto agli imprenditori o ai soci di società di prestare garanzie personali.
La fideiussione
Il fideiussore si obbliga personalmente verso il creditore per garantire l’adempimento di obbligazioni altrui. La fideiussione si caratterizza per l’accessorietà rispetto all’obbligazione garantita: se quest’ultima non è valida, neppure la fideiussione lo è e il fideiussore può eccepire al creditore le stesse eccezioni che spettano al debitore principale.
Il creditore può chiedere l’adempimento sia al debitore principale che al fideiussore e si può escludere la necessità della preventiva escussione del debitore principale.
Se la fideiussione è prestata per un’obbligazione condizionale o futura, deve essere fissato l’importo massimo garantito (art. 1938 c.c.). È questo il caso delle fideiussioni cd. omnibus, a garanzia di una o più operazioni bancarie, fino alla soglia massima stabilita nel contratto. L’associazione bancaria italiana ha elaborato un modello di fideiussione omnibus, che deroga alla disciplina codicistica. Nel 2005 la Banca d’Italia ha stabilito che le fideiussioni omnibus conformi a tale modello siano da ritenersi nulle per violazione della normativa antitrust. Secondo l’interpretazione prevalente, la nullità non investe l’intero contratto di fideiussione, ma solo le singole clausole con le disposizioni vietate dalla Banca d’Italia.
Differenze con la garanzia autonoma
Le garanzie personali atipiche si connotano essenzialmente per l’assenza di accessorietà dell’obbligazione del garante rispetto a quella del debitore principale.
Cosa può fare il fideiussore
Qualora il contratto preveda che “il garante è tenuto a pagare immediatamente l’azienda di credito, a semplice richiesta scritta, anche in caso di opposizione del debitore, quanto dovutole per capitale, interessi, spese, tasse ed ogni altro accessorio”, si ritiene che sia derogata la disciplina della fideiussione in relazione al beneficio di preventiva escussione del debitore principale e alla possibilità per il garante di sollevare al creditore le eccezioni del rapporto principale.
È quindi necessario affidarsi a dei professionisti legali competenti per stabilire le possibilità e le condizioni per liberarsi dai rischi associati a queste garanzie, anche verificando l’eventuale eccezione di nullità della fideiussione per violazione della normativa antitrust.
28 Luglio 2023
Si avvicina la scadenza per gli obblighi in materia di whistleblowing
Per ottemperare al D.lgs. n. 24/2023 (di attuazione della Direttiva UE 1937/2019) riguardante la protezione del whistleblower, ossia di chi segnala attività illecite all’interno di un’organizzazione pubblica o privata, i soggetti pubblici e quelli privati con almeno 50 dipendenti (a pena di sanzioni da 10.000 a 50.000 euro) devono attivare entro il prossimo 15 luglio ( per i soggetti privati che occupano fino a 249 dipendenti l’obbligo decorre invece dal 17 dicembre 2023) un proprio canale di segnalazione, che garantisca la riservatezza del contenuto della segnalazione, dell’identità del segnalante e delle persone nella stessa menzionate.
Gestione delle segnalazioni
Il canale deve consentire di ricevere le segnalazioni in forma scritta (anche in via informatica) o in forma orale (telefono e messaggistica vocale). La sua gestione deve essere affidata ad un ufficio interno o soggetto esterno a ciò dedicato, autonomo e con personale specificamente formato. Per i soggetti pubblici, il decreto individua il Responsabile della prevenzione della corruzione e della trasparenza (“RPCT”). I soggetti privati potrebbero invece ad esempio incaricare l’ufficio di compliance aziendale o l’ODV ex D.lgs. 231/2001. Dell’istituzione del canale di segnalazione deve essere fornita adeguata e chiara informativa, facilmente visibile nei luoghi di lavoro o in una sezione dedicata del sito internet aziendale.
Canali di segnalazione condivisi
Il D.lgs. 24/2023 prevede, come la Direttiva 1937/2023, la possibilità di condividere i canali di segnalazione: per il settore pubblico, unicamente per i comuni diversi dai capoluoghi di provincia; per il settore privato, unicamente per i soggetti che hanno impiegato nell’ultimo anno una media di dipendenti non superiore alle 249 unità. Questo aspetto potrebbe interessare i gruppi e le multinazionali, nell’ottica di centralizzare la gestione delle segnalazioni. Sul punto si è pronunciata la Commissione Europea in due comunicazioni del giugno 2021, in cui chiarisce che potrebbe essere compatibile con la Direttiva 1937/2023 creare o mantenere funzioni di whistleblowing centralizzate a livello di gruppo e che le varie filiali possano beneficiare delle risorse investigative della capogruppo, purché la filiale impieghi meno di 250 dipendenti, i canali di segnalazione esistano e restino attivi a livello di quest’ultima e il segnalante possa richiedere che la segnalazione venga gestita a livello locale.